Varie

Appello Anief-Confedir al ministro del Lavoro: autorevoli studi confermano che i docenti sono sottoposti a diversi stress di tipo professionale, non commetta l’errore fatto con la Legge Fornero che ha considerato usuranti solo professioni riconducibili al comparto privato.

È indispensabile includere anche gli insegnanti nel progetto di legge sulla pensione anticipata, attraverso la formula del “prestito d’onore”, oggi confermato dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini. L’idea di permettere su base volontaria di lasciare il lavoro due-tre anni prima, chiedendo un assegno anticipato di importo minimo (circa 700 euro al mese), da restituire in piccole rate al momento della maturazione effettiva del pensionamento, non può lasciare fuori la categoria professionale che più di tante altre è a rischio ‘burnout’.

Lo studio decennale ‘Getsemani’, dal titolo ‘Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti’, ha fatto emergere che la categoria degli insegnanti è quella che di più conduce verso patologie psichiatriche e inabilità al lavoro. Svolgendo una professione altamente ripetitiva e alienante, i docenti sono infatti sottoposti a diversi stress di tipo professionale. Le ultime stime, svolte su scala nazionale, indicano almeno il 3% di docenti (circa 25mila) sofferenti di patologie psichiatriche croniche, a cui va aggiunto un altro 10% (circa 80mila) che mostra segni palesi di stanchezza e spesso di depressione.

Il medico ematologo Vittorio Lodolo D'Oria, autore di diversi studi sul ‘burnout’, ha accertato che gli insegnanti stressati a causa del lavoro logorante sono il 73%. Gli individui che causano loro maggior stress sul lavoro sono nell'ordine: gli studenti (26%); i loro genitori (20%); i colleghi (20%); il dirigente scolastico (2%). Il 32% rimanente ritiene usurante la somma di tutte le relazioni. Sempre gli studi del medico esperto in ‘burnout’ hanno accertato che ad essere particolarmente esposte sono le docenti, che nella scuola rappresentano complessivamente oltre l'80% del corpo insegnante: sono fisiologicamente più soggette al "logorio professionale, in particolare dopo la menopausa". I dati sono stati confermati dallo stesso Lodolo D’Oria solo alcuni giorni fa attraverso un’intervista alla stampa specializzata nelle quale il medico si sofferma sulle “gravi patologie psichiatriche o di forme tumorali conseguenti all’immunodepressione da stress cronico” dell’insegnante medio.

Di questa situazione è ben cosciente anche il Ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, la quale di recente ha dichiarato che “il mestiere dell'insegnante è usurante, ma ora abbiamo leggi che dobbiamo rispettare. Certo, è necessario rimediare ai guasti che abbiamo fatto come quelli, i cosiddetti 'quota 96', che non sono riusciti ad andare in pensione”, ha tenuto a dire sempre il Ministro. Includere i docenti nella formula del “prestito d’onore Letta-Giovannini non farebbe altro, quindi, che rispondere a questa precisa esigenza.

“Considerare finalmente quella dell’insegnamento tra le categorie meritevoli di una deroga all’attuale legge pensionistica – dichiara Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – rappresenterebbe il giusto riconoscimento ad una categoria professionale particolarmente esposta alle sindromi psichiatriche e derivanti da stress lavorativo. Non si deve assolutamente commettere l’errore fatto con la Legge Fornero, che ha considerato usuranti solo professioni riconducibili al comparto privato. Inoltre, la loro inclusione nel progetto di legge del ministro Giovannini – conclude Pacifico - permetterebbe di svecchiare il corpo docente italiano, che si contraddistingue per la presenza di oltre il doppio di over 50 rispetto alla media dei paesi europei ed appena lo 0,1% di insegnanti under 30”.

Per approfondimenti:

Docenti sempre più vecchi, demotivati e a rischio patologie: serve ‘finestra’ per lasciare prima

Con il 2014 altro giro di vite sulle pensioni: gli insegnanti italiani i più vecchi al mondo

 

Anief-Confedir chiede un emendamento al decreto Milleproroghe, in questi giorni all’esame del Parlamento. Marcello Pacifico: tutti i più autorevoli studi epidemiologici e sugli insegnanti concordano che lavorare con gli studenti è iperlogorante. E ad alto rischio burnout. Non si può mandare un docente in pensione in tarda età, soprattutto cambiando le regole in corsa: lasciare con 35 anni di contributi renderebbe giustizia alla categoria.

Aprire una ‘finestra’, attraverso un emendamento al decreto Milleproroghe n. 151, in questi giorni all’esame del Parlamento, che permetta finalmente al personale agli insegnanti di andare in pensione con i requisiti previsti dalla 247/2007, in vigore sino all’entrata in vigore della riforma Fornero. A chiederlo è il sindacato Anief, dopo aver preso atto del crescente rischio di insorgenza di patologie psichiatriche e tumorali tra il personale docente, ma anche amministrativo, che opera nelle nostre scuole.

Recentemente anche il Ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, ha dichiarato che “il mestiere dell'insegnante è usurante, ma ora abbiamo leggi che dobbiamo rispettare. Certo, è necessario rimediare ai guasti che abbiamo fatto come quelli, i cosiddetti 'quota 96', che non sono riusciti ad andare in pensione”, ha sottolineato il Ministro. Il problema è che sono passati più di due anni dall’entrata in vigore della riforma pensionistica, approvata dal Governo Monti, ma in tutto questo tempo non si è riusciti ad approvare una norma che tenga conto delle particolari condizioni della categoria professionale che più di tutte, almeno nella pubblica amministrazione, è particolarmente esposta al burnout, alle patologie psichiatriche e neoplastiche.

In tutto questo tempo, Governo e Parlamento non sono stati in grado di dare una risposta nemmeno agli oltre 3mila docenti e Ata che avevano iniziato l’anno scolastico 2011/12 convinti di andare in pensione. Ma poi sono rimasti “bloccati” sempre dagli estensori della riforma Fornero, che gli hanno incredibilmente negato la validità dell’intero anno scolastico per raggiungere la fatidica ‘Quota 96’.

La ‘finestra’ auspicata da Anief-Confedir permetterebbe ai tanti lavoratori, come loro e con almeno 35 anni di contributi, di superare la posizione di limbo cui sono stati collocati anche dalla Corte Costituzionale. La quale, a fine 2013 sulla questione ha deciso di non decidere: la Consulta ha infatti dichiarato inammissibile l’ordinanza del giudice del lavoro di Siena che aveva sollevato la legittimità costituzionale sulla richiesta di un’insegnante di andare in pensione attraverso i “vecchi” requisiti della legge Damiano. Senza dimenticare che, nel frattempo, lo Stato continua a concedere la possibilità di lasciare con i vecchi requisiti a tutti i dipendenti della scuola soprannumerari (Circolare n. 3/2013 della Funzione Pubblica) poiché rimasti senza cattedra o posto.

Ma, soprattutto, Anief reputa discriminante mandare in pensione un insegnante alle soglie dei 70 anni. Quando l’Inps, con la comunicazione n. 545, ha ricordato che seppur adeguando i requisiti agli incrementi della speranza di vita per l’accesso alla pensione di anzianità, il personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico continua a fruire di “tetti” di vecchio stampo: per questi lavoratori, infatti, i requisiti per l’accesso al pensionamento “a decorrere dal 1° gennaio 2013 e fino al 31 dicembre 2015 l’accesso al pensionamento anticipato prevede il raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 35 anni e con un’età di almeno 57 e anni e 3 mesi”.

Tanto è vero che primi sei mesi del 2013 i corpi di polizia hanno lasciato il servizio in media a 54,8 anni. Ed i militari a 57 anni. Nel contempo, il progressivo progetto di allineamento di tali figure professionali ai nuovi requisiti pensionistici è naufragato per volontà delle commissioni parlamentari. Così militari e poliziotti continueranno ad andare in pensione prestissimo, anche con anche 15 anni di anticipo rispetto ai colleghi di altri comparti pubblici. Senza dimenticare che aprire una ‘finestra’ per l’accesso al pensionamento dopo 35 anni di contributi permetterebbe di svecchiare il nostro corpo docente: i dati ufficiali indicano che appena lo 0,1% ha meno di 30 anni e il 60% ha più di 50 anni, contro una media Ocse del 36%.

“Con l’innalzamento ulteriore dei requisiti minimi per lasciare il lavoro, previsto dalla riforma Fornero, andrà sempre peggio”, dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir. “Ci ritroveremo – continua - con decine e decine di migliaia di docenti e Ata ultrasessantenni sfiniti, però costretti ad operare con giovani ‘nativi digitali’. Obbligati, ogni oltre logica, a formare giovani con cui spesso non riescono più a rapportarsi con efficacia. Del resto, tutti i più autorevoli studi epidemiologici e sugli insegnanti convergono su un punto: lavorare con gli studenti è iper logorante. E ad alto rischio burnout. Non si può mandare un docente in pensione in tarda età, soprattutto cambiando le regole in corsa. Per questo – conclude Pacifico – introdurre una ‘finestra’ renderebbe giustizia alla categoria. E salverebbe l'amministrazione da un enorme sicuro contenzioso, dove la trascinerà il nostro sindacato”.

Di questo rischio, evidentemente, sono coscienti anche i vertici del Governo. Tanto è vero che è idea del il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, avallata dal premier Enrico Letta, di istituire “una sorta di prestito pensionistico, consentendo ad alcune categorie di persone di mettersi a riposo 2 o 3 anni prima rispetto a quanto prevede la legge Fornero. Con questo sistema, l'ex-lavoratore non riceverebbe un vero e proprio assegno previdenziale ma una sorta di anticipo da parte dell'Inps sulla pensione futura, per un importo che arriva al 75-80% della rendita”. L’ennesima dimostrazione dei limiti insiti nell'art. 24 del Decreto Legge 201/2011 voluto dal ministro del Lavoro del Governo Monti.

Per approfondimenti:

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A rimarcarlo è ‘Eurydice’, attraverso un dossier sugli investimenti nell'istruzione nei paesi del vecchio Continente: tagli soprattutto su numero di insegnanti, investimenti in infrastrutture e verso ICT. Pacifico (Anief-Confedir): il nostro è l’unico Paese dell’Ocse che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria, contro un aumento medio del 62%. I nostri governanti ancora non hanno capito che più si taglia e più la dispersione e l’insuccesso scolastico aumentano.

Nell’ultimo anno in Europa si è riscontrato aumento generalizzato di investimenti a favore dell’istruzione di oltre l'1%. L’Italia, invece, continua a segnare il passo, con una riduzione dell’1,2% rispetto al 2012. Il dato è stato pubblicato dall’agenzia ‘Eurydice’ attraverso un dossier sugli investimenti nell'istruzione da parte dei paesi europei. Dalle notizie contenute nel documento, raccolte dalla stampa specializzata, emerge che “una diminuzione può essere registrata in paesi come Irlanda, Croazia, Cipro (-15,8%), Malta, Regno Unito - Inghilterra, Italia (-1,2%), Finlandia”. Inoltre, “in generale, i tagli hanno riguardato soprattutto il numero di insegnanti e gli investimenti in infrastrutture e ICT (attrezzature e software )”.

Anief-Confedir ricorda che questi risultati nazionali trovano origine anche in alcune manovre introdotte negli ultimi anni in regime di spending review. Come il blocco del turn-over, la precarizzazione del rapporto di lavoro ed il rinnovato sistema di finanziamenti delle università. In questo modo, se già nel 2000 l’Italia spendeva -2,8% della sua spesa pubblica rispetto alla media OCSE (Italia 9,8% - Ocse 12,6%), dieci anni dopo si ritrova in controtendenza sempre all’ultimo posto persino tra i Paesi G20 (32° posto) con un -4,1% (Italia 8,9% - Ocse 13,0%).

Il saldo è negativo pure rispetto al P.I.L.: - 0,9% nel 2000 (Italia 4,5% - Ocse 5,4%) e -1,6% nel 2010 (Italia 4,7% - Ocse 6,3%), dove siamo collocati al terzultimo posto (31°). Complessivamente, in dieci anni la spesa pubblica italiana dedicata all’istruzione già di per sé l’80% di quella destinata dagli altri Paesi Ocse è scesa del 10% in controtendenza all’aumento, seppur modesto, del 3% registrato sempre negli altri Paesi. Così da abbassarsi al 67% rispetto a livelli intermedi.

“Per raggiungere questi risultati – ricorda Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - lo Stato italiano ha pensato bene di andare ad intaccare risorse e organici della scuola. In particolare negli ultimi sei anni sono stati cancellati 200mila posti, sottratti 8 miliardi di euro e dissolti 4mila istituti a seguito del cosiddetto dimensionamento (poi ritenuto illegittimo dalla Consulta). Ora, siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, questi dati non sorprendono: più si taglia e più la dispersione e l’insuccesso scolastico aumentano”.

A tal proposito, non bisogna dimenticare che l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria, contro un aumento medio del 62%. Nell’ultimo anno sono persino aumentate, dal 25% al 100%, le tasse richieste dalle Università agli studenti fuori corso. E soltanto il 15% degli italiani tra i 25-64 anni ha riscontrato un livello di istruzione universitario rispetto a una media OCSE del 32%, mentre la percentuale di studenti quindicenni che spera di conseguire la laurea è scesa dal 51,1% del 2003 al 40,9% del 2009. Con il numero degli insegnanti italiani di età media over 50 che rappresentano ormai il 57% del personale.

E a dare la ‘mazzata’ finale al sistema scolastico è stata la riforma di tutti i cicli introdotta durante l’ultimo Governo Berlusconi, con il ministro Gelmini a capo del Ministero di viale Trastevere: basta dire che ha introdotto la riduzione di un sesto l’orario scolastico. Tanto è vero che oggi l’Italia detiene il “primato” di far svolgere ai suoi alunni della primaria 4.455 ore studio, rispetto alle 4.717 dell’Ocse. E 2.970 in quella superiore di primo grado rispetto alle 3.034 sempre dell’Ocse. Un’operazione che ha spazzato via, come ragionieristicamente calcolato dal Mef, diverse decine di migliaia di insegnanti.

Ma il calo di interesse si è manifestato anche all’Università. Cui ormai si iscrive appena il 30% dei neo diplomati. Anche in questo caso, stavolta a seguito della Legge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. Con i ricercatori che si sono sempre più eclissati. Risultato: il numero di giovani iscritti all’università che oggi raggiunge la laurea è infatti il più basso di tutti. Tanto che l’Italia si posiziona, in alcune fasce d’età, oltre 15 punti percentuali sotto la media europea.

“Al di là dei proclami – continua Pacifico - , anziché investire seriamente nella formazione, in professionalità, in tempo scuola, in competenze, ad iniziare da quelle nell’Ict, senza dimenticare l’apprendistato, da rilanciare assieme ad artigianato, turismo e nuove tecnologie, in Italia si è continuato a considerare l’istruzione un settore quasi marginale. Portando così le scuole allo stremo, tanto che alcuni dirigenti sono arrivati a chiedere ad ogni famiglia fino a 300 euro l’anno di contributi. Mentre spendere per formare capitale umano significa credere nella capacità civilizzatrice e lavorativa dell’uomo e gettare le basi per la costruzione di una società equa e solidale. Oltre che – conclude il sindacalista Anief-Confedir - per il rilancio dell’economia”.

Per approfondimenti:

La revisione della spesa nell’istruzione e nell’università

Abbandoni scolastici: Italia peggio di tutti nell’Ue a 27

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Anief-Confedir: anziché assumere 11.851 collaboratori scolastici, il Governo si è affidato a ditte di pulizia esterne e a cooperative di ex Lsu. Ma i soldi risparmiati non hanno portato alcun beneficio, nemmeno l'assunzione prevista dal decreto del 'fare' di 1.500 docenti e ricercatori. Pacifico (Anief-Confedir): a conti fatti lo Stato sta spendendo il doppio e producendo disservizi all'utenza scolastica. Tanto valeva mettere in ruolo i tradizionali bidelli, che provvedono pure alla sorveglianza dei nostri alunni.

Stanno assumendo proporzioni nazionali i disservizi dovuti all'affidamento delle pulizie di migliaia di scuole a ditte esterne negli istituti del Nord e a cooperative di ex lavoratori socialmente utili al Sud. La riduzione progressiva dei finanziamenti statali per le cooperative di ausiliari sta producendo una carenza di pulizia tale che, notizia delle ultime ore, alcuni dirigenti sono stati costretti a chiudere i propri istituti.

Il sindacato, che ha preso posizione in tempi non sospetti, reputa quanto sta accadendo una conseguenza della insensata politica dei tagli decisa dai nostri governanti anche su questo fronte di spesa: due anni fa, infatti, si spendevano per le pulizie cosiddette esternalizzate circa 600 milioni di euro. Nel 2013 la spesa si era ridotta già di un terzo. E il 2014 sarà ancora peggio.

Tramite il decreto del “fare”, approvato nei mesi scorsi su spinta del Consiglio dei ministri, sono stati sottratti 25 milioni per l'anno in corso e altri 50 verranno risparmiati nel 2015. Arrivando così in meno di un lustro a dimezzare la spesa: tra un biennio lo stanziamento pubblico per le ditte di pulizie esterne sarà di appena 280 milioni. Ma si tratta di un'operazione di spending review che non porterà alcun beneficio: a conti fatti lo Stato sta spendendo il doppio e producendo disservizi all'utenza scolastica.

Come se non bastasse, l'obiettivo del Governo di garantire, con i soldi risparmiati, le assunzioni nelle università e negli enti di ricerca, elevando tra il 20 e il 50% il turn-over rispetto all'anno precedente, è venuto meno. E ciò a causa del successivo blocco delle assunzioni protratto fino al 2018.

"Bisognerà attendere almeno cinque anni per vedere realizzata l'assunzione dei previsti 1.500 docenti ordinari e di altrettanti nuovi ricercatori", ricorda Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir. "Solo che nel frattempo - continua - le scuole stanno chiudendo perché sono piene di immondizia. Tanto valeva, allora, assumere in ruolo gli 11.851 collaboratori scolastici messi da parte proprio per risparmiare i fondi destinati a fare spazio ai lavoratori socialmente utili e alle cooperative che li gestiscono. Il personale Ata della scuola avrebbe garantito un servizio migliore e anche quella sorveglianza agli alunni che i pulitori esterni non assolvono".

"Su questa vicenda - continua Pacifico - pesa poi il parere dei giudici amministrativi, che con la sentenza numero 333 del Tar del Lazio hanno reputato illegittimo tagliare il personale Ata e nel contempo mantenere in vita dei posti da assegnare ad ausiliari esterni alla scuola a minor costo: con quella sentenza, tecnicamente è stato annullato l’accantonamento dei posti previsti dal DPR 119/2009, laddove non investito delle stesse riduzioni di posti relativi all’organico Ata disposto dalla legge 133 del 2008. In sostanza - conclude Pacifico - oltre 11mila collaboratori scolastici oggi sarebbero stabilizzati e i fondi mal gestiti sarebbero bastati anche, come riportava la relazione tecnica del decreto del 'fare', per coprire le loro progressioni di carriera".

Per approfondimenti:

Assurdo tagliare i servizi di pulizie nelle scuole per finanziare le assunzioni nelle università

 

I dati Almalaurea confermano un divario sempre maggiore, con il tasso di occupazione tra chi ha terminato l’Università che al Settentrione supera ampiamente il 50% mentre nelle regioni meridionali si ferma al 35%. Differenze ampie anche per gli stipendi. Anief-Confedir: il gap ha origine nella differenza di investimenti tra le diverse aree del Paese, ma anche nelle capacità diversificate del tessuto industriale di accogliergli. Per cambiare strada occorre potenziare gli investimenti e riprogrammare da subito il sistema produttivo attorno alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale.

Si allarga sempre più la forbice tra nord e Sud. Almeno su formazione e opportunità lavorative. I dati emessi nelle ultime ore da ‘Almalaurea’ indicano un “aumento di due punti percentuali rispetto a quanto rilevato nella precedente indagine del consorzio: il tasso di occupazione si attesta, infatti, al 52,5% tra i laureati del Nord, dove il 17% continua ancora gli studi, mentre si ferma al 35% al Sud e ciò indipendentemente dalla sede universitaria e delle facoltà dove i giovani hanno compiuto i propri studi.

Inoltre, laurearsi oggi al Sud significa probabilmente guadagnare meno soldi. La ricerca di Almalaurea ha registrato degli stipendi netti dei laureati al Nord (1.086 euro) decisamente più alto rispetto ai “colleghi” freschi di titolo di ‘dottore’ delle regioni centrali (1.001 euro) e soprattutto di quelli che hanno raggiunto l’ambìto titolo universitario nel Mezzogiorno (900 euro).

Anche lo Stato, che per decenni ha rappresentato un punto fermo della forza lavoro, non riesce più a recepire laureati. Una recente indagine nazionale, sempre realizzata da Almalaurea, ha rilevato che appena l’11% dei “dottori” con laurea specialistica, oltre il triennio, a un anno dal conseguimento del titolo di studio lavora nella pubblica amministrazione. A fronte dell’83,5% che opera nel privato, cui va aggiunto il restante 5,5% occupato nel non profit.

Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, “questi dati confermano che l’Italia viaggia sempre più a due velocità: al punto che nemmeno il titolo di studio più elevato, la laurea, riesce a garantire il posto di lavoro. Il gap di quasi 20 punti percentuali parla da solo. Ci sono comunque alcune considerazioni da fare. La prima è che il divario ha origine nella differenza di investimenti tra le diverse aree del Paese. Vale per tutti l’esempio di quanto è accaduto in Sicilia nel 2012, dove la mancanza di risorse e di mense scolastiche ha prodotto un tempo pieno nella scuola primaria solo per il 3 per cento degli alunni. Nello stesso anno il tempo pieno in Lombardia era presente nel 90 per cento delle scuole primarie”.

“C’è poi il problema della diversa ricezione degli investimenti, a causa del differente tessuto industriale. Un caso per tutti è quello dei tentativi mancati per una formazione più di qualità. Basti pensare – sostiene il sindacalista Anief-Confedir - all’abbattimento dei fondi destinati a combattere l’abbandono scolastico. Ma anche alle promesse mai mantenute su un migliore orientamento per le iscrizioni successive alla licenza media e dell’obbligo formativo da posticipare fino a 18 anni. Oppure al mancato decollo dell’apprendistato”.

“In queste condizioni – continua Pacifico – è normale che le zone tradizionalmente più in difficoltà vadano ancora più a fondo. E non riescono più a reggere il passo. Perché è storicamente provata la forte associazione tra povertà, bassi livelli di istruzione, modesti profili professionali ed esclusione dal mercato del lavoro. Non è una sorpresa, quindi, scoprire che al Meridione vi sono i più alti tassi di abbandono scolastico in età di obbligo formativo. Con il risultato che negli ultimi cinque anni tra il Sud e le Isole si sono persi 150mila alunni - con Molise, Basilicata e Calabria che accusano riduzioni tra il 7% e il 9% - mentre al Nord c’è stato un incremento di 200mila iscritti”.

Il sindacato torna quindi ad esortare le forze governative a riprogrammare il sistema produttivo nazionale attorno alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale. Il fine è promuovere un’economia durevole in un settore privo di concorrenza. E che al Sud può dire la sua. Ma per farlo occorre finalmente integrare il settore pubblico con il privato, affidando la ‘cabina di regia’ a tutti gli attori e i settori dell’economia italiana: industrie, artigianato, agricoltura, parti sociali, banche, chiese e vi dicendo. Ma anche recuperando il patrimonio esistente: per puntare alla creazione di parchi e percorsi tematici, musei. In modo da creare o potenziare la ricettività turistica correlata. E riuscire, nel contempo, a cominciare ad assorbire almeno una parte di quel 65% di laureati che a distanza di anni dal conseguimento del titolo rimane ancora disoccupato.

Per approfondimenti:

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