Varie

Studio dell’Anief sulla condizione femminile nell’istruzione pubblica. La percentuale di donne dietro alla cattedra è destinata a crescere: tra gli iscritti ai corsi di formazione per abilitarsi nella scuola primaria e dell’infanzia ci sono corsi dove vi è un solo componente di sesso maschile ogni trenta donne. Continuando nella tradizione: oggi alla materna il 99,6% è rappresentato da maestre.

Già in tenera età i risultati scolastici sono migliori. Inoltre, abbandonano i banchi con meno frequenza, si diplomano con voti più alti e si laureano prima. Ma sul lavoro non hanno sconti: entrano di ruolo e vanno in pensione sempre più tardi.

C’è chi dice che curarsi della crescita culturale dei bambini e delle nuove generazioni sia principalmente un “affare” di donna, perché l’educazione è per definizione e tradizione un’attività tipicamente femminile. Mentre gli uomini se ne sono sempre preoccupati poco. C’è chi pensa che le buste paga degli insegnanti italiani siano incompatibili con le esigenze di un capofamiglia, per tradizione di sesso maschile. Per non parlare della mancanza di possibilità di fare “carriera” e del sempre più sbiadito prestigio sociale. C’è poi chi si dice convinto che i tempi della scuola, con i pomeriggi liberi, si addicono particolarmente al sesso femminile, per tradizione dedito alla famiglia. Fatto sta che quando si pensa ad un insegnante della scuola italiana il pensiero va ad una donna.

I NUMERI
A sostenerlo, del resto, sono anche i numeri: oggi il corpo docente italiano è per l’81,1% composto da donne. Una percentuale altissima: in Europa solo un Paese, l’Ungheria, conta una presenza maggiore di sesso femminile dietro la cattedra (82,5%). A livello di scuola d’infanzia, poi, tocchiamo un record mondiale: solamente lo 0,4% di maestri sono uomini. Una presenza che alle superiori si riduce sensibilmente, ma sfiorando il 60% costituisce sempre la grande maggioranza. Anche in questo caso si tratta di una caratteristica tipicamente italiana: basti pensare che in Germania le donne di ruolo impegnate nella scuola secondaria di secondo grado sono il 46,2%.

LA SCUOLA
La maggiore predisposizione delle donne verso la scuola sembrerebbe legata anche a fattori biologici. Che si manifestano già in tenera età. Con i risultati migliori, già nella scuola primaria, molto spesso ad appannaggio del sesso femminile. Se guardiamo ai dati sulla dispersione scolastica, il tema non cambia: nel 2012 l’Italia era ancora ferma al 17,6% di giovani usciti dal circuito formativo prima dei 16 anni; una quota decisamente lontana dal valore medio dell’indicatore nell’Ue27, che si attesta al 12,8 per cento. Però se si guarda al genere di alunni italiani che lascia i banchi prima del tempo, il quadro diventa ampiamente in attivo: tra i maschi sale infatti al 20,5%, mentre tra le femmine scende al 14,5% (non molto distante dalla media europea).

Il rapporto più felice tra donna e istruzione si evince, inoltre, dalle ultime risultanze Ocse: scorrendo i dati OECD (Education at a Glance 2013), emerge che in Italia i maschi diplomati della secondaria sono il 70% tra i 25-34enni (+25%), invece le femmine diplomate raggiungono il 75% nella stessa fascia di età (+35%). A quindici anni le femmine hanno competenze in lettura significativamente più alte dei maschi, mentre questi ottengono risultati migliori in matematica, ma di misura statisticamente non significativa. Le ragazze coltivano, inoltre, aspettative di lavoro più elevate dei maschi e si iscrivono ai corsi di istruzione universitaria più dei ragazzi.

UNIVERSITA’ E LAVORO
E nell’istruzione terziaria le donne primeggiano sul totale della popolazione, con il 16% contro il 13% degli uomini, in sintonia con la media dei paesi Ocse (donne 33%, uomini 29%). Sempre dall’università giungono numeri eloquenti: le donne iscritte ad una Facoltà di studi italiana sono di più (56%), hanno ottenuto alla maturità un giudizio medio alto (87/100) e si laureano almeno un anno prima degli uomini. Tuttavia, il tasso di disoccupazione delle laureate rimane più alto, il 6,7%, contro il 4,1% dei maschi. Anche perché scegliendo in prevalenza corsi di studi umanistici, le donne hanno molte meno probabilità dei maschi di operare professionalmente in campi tecnologici o comunque economicamente più produttivi. In ogni caso, anche a parità di titolo di studio guadagnano meno degli uomini: in genere la differenza è de 10-20%, anche se non di rado raggiunge punte del 30-40%.

IN RUOLO SEMPRE PIU’ TARDI
Per molte donne la scuola, dove non vi sono differenze di stipendio in base al genere, ha sempre rappresentato un’isola felice. Negli ultimi anni le cose però si stanno complicando. Il loro reclutamento è diventato sempre più lento: basta dire che tra il 2009 e il 2011 il numero degli insegnanti si è ridotto del 9% passando, da 843mila a 766mila unità. Un decremento che ha riguardato maggiormente i docenti precari, tagliati del 25%, mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%. Così l’attesa prima dell’assunzione a tempo indeterminato si è sempre più allungata. Tanto è vero che oggi le nostre docenti con meno di 30 anni sono appena lo 0,5%, mentre in
Germania la presenza di insegnanti under 30 si colloca al 3,6%, in
Austria e Islanda al 6%, in Spagna al 6,8. Tanto è vero che qest’anno non sono mancati i casi di donne ultrasessantenni convocate per essere immesse in ruolo. E ormai complessivamente due insegnanti italiani su tre hanno almeno 50 anni.

LA PENSIONE SI ALLONTANA
Per le donne che insegnano anche lasciare il lavoro, per accedere alla meritata pensione, è diventato un problema. Un vantaggio che però, a seguito dell’approvazione della riforma Fornero, sta venendo meno: dal 1° gennaio del 2012 l’età minima per accedere all’assegno di quiescenza è passato da 60 a 62 anni, da quest’anno servono 63 anni e 9 mesi. Mentre per quelle che non posseggono il requisito dell’età anagrafica, occorre un’anzianità contributiva di 41 anni e 6 mesi entro il 31 dicembre 2014. È quasi superfluo dire che si tratta di un’imposizione che fa arrivare le donne italiane alla pensione scontente e affaticate: sarebbe servita un’introduzione della legge più graduale e dando la possibilità alle docenti con oltre 20-25 di insegnamento alle spalle di diventare tutor dei nuovi colleghi, alleggerendole in questo modo dal peso dell’insegnamento tradizionale e fornendo un prezioso aiuto alle nuovi generazioni d’insegnanti. Sempre più rosa.

Per approfondimenti:

Ocse. Le donne sempre più brave rispetto agli uomini, ma sempre remunerate di meno

Insegnanti maschi assenti

Prof sempre più vecchi, donna in ruolo a 62 anni dopo 33 di precariato

Con il 2014 altro giro di vite sulle pensioni: gli insegnanti italiani i più vecchi al mondo

 

La Commissione di Bruxelles sottolinea che nel nostro Paese servono in media 10 mesi e mezzo per ottenere un’occupazione dal conseguimento del titolo di studio. Anief-Confedir: urge alzare la qualità formativa, servono organici flessibili, investimenti veri e più tempo scuola.

Per trovare un’occupazione un giovane italiano deve aspettare quasi un anno, per l’esattezza 10 mesi e mezzo, dal conseguimento del titolo di studio: un periodo lunghissimo se si considera che nell’Europa a 27 solo la Grecia fa attendere di più ai propri giovani per trovare un impiego. Il dato è contenuto nel documento attraverso cui Bruxelles chiede al Governo italiano “un’azione urgente e decisa” per combattere l’appiattimento competitivo e la continua salita del debito: dopo aver sottolineato che l'Italia ha la percentuale più alta di popolazione con istruzione solo di base e la percentuale più bassa di popolazione con istruzione terziaria nell'Ue, la Commissione si sofferma sul fatto che il tempo medio tra il conseguimento del titolo di istruzione e l'inizio del primo lavoro è stato di 10,5 mesi. Siamo secondi solo alla Grecia (13,5).

La stampa specializzata ha osservato che si tratta di indicazioni davvero preoccupanti. Anche perché, parallelamente, aumenta in modo vertiginoso la presenza di Neet (giovani di età compresa tra 15-29 non in materia di istruzione, occupazione o formazione): nel 2012 era al 24%, la terza percentuale più alta in Europa. Non fanno ben sperare anche i modesti tassi di competenze per gli adulti, ma anche per i giovani: “dati negativi che puntano a un ulteriore ampliamento del divario delle abilità nel futuro. Così in particolare in sede OCSE PIAAC, l'Italia si colloca al fondo dell'alfabetizzazione tra i paesi partecipanti al sondaggio e solo al di sopra la Spagna nelle abilità matematiche. Solo il 3,3 % degli italiani raggiunge il punteggio più alto per l'alfabetizzazione (media OCSE dell'11,8 % ) e del 4,5 % per la matematica (media OCSE è circa il 10%)”.

Come ravvisato dal sindacato in queste ore, si allarga sempre più la forbice tra l’istruzione impartita al Nord rispetto a quella del Sue e delle Isole: “ad esempio, gli studenti di Trento, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia tendono ad avere punteggi medi ben al di sopra della media OCSE”. Come se non bastasse, “la percentuale di giovani tra i 18 ei 24 anni che lasciano la scuola senza istruzione secondaria superiore era 17,6 % nel 2012 , vale a dire 5 pps superiore alla media UE - 27 e ancora al di sopra dell'obiettivo nazionale per il 2020 ( 15-16 % )”. In particolare, il tasso di abbandono risulta molto alto durante il primo anno delle superiori. Con discrepanze regionali non indifferenti: “il tasso varia da circa il 15 % nelle regioni settentrionali e centrali al 25% in Sicilia e Sardegna (20% nel resto del sud)”. È più alto proprio nelle regioni dove i Governi negli ultimi anni, soprattutto tra il 2008 e il 2011, hanno tagliati più docenti.

Va male, se non peggio, l’esito del successo formativo a livello universitario: il tasso di drop-out terziaria in Italia (55%) è stato il più alto tra i paesi OCSE. E nelle fasi successive della vita lavorativa, la partecipazione degli adulti italiani per "l'educazione degli adulti" è tra le più basse nei paesi PIAAC (il 24% dei lavoratori rispetto alla media OCSE del 52%). In generale, la spesa pubblica italiana per l'istruzione equivale al 4.5% del PIL, 1 pp inferiore alla media UE, “soprattutto a causa una riduzione della spesa per l'istruzione terziaria”.

“Quel che risalta da questo rapporto – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è che non solo, come segnalato dal sindacato, occorre introdurre degli organici dei docenti flessibili in modo da fronteggiare le diverse complessità sociali, culturali ed economiche delle varie aree del Paese. Ma occorre tornare ad investire con decisione su tutto il comparto istruzione. E più in generale nella conoscenza. Anziché pensare di cancellare un anno di scuola, penalizzando il percorso della scuola superiore - conclude Pacifico -, si torni ad alzare il tempo scuola e a dare dignità al corpo insegnante che oggi percepisce stipendi tra i più bassi dell’area Ocse”.

Per approfondimenti:

Al Sud in 5 anni sparito il 15% di insegnanti di ruolo: così si spiega il boom di abbandoni e disoccupazione

Fondazione Agnelli: la scuola ha già dato molto

Abi-Censis: Territorio, banca, sviluppo - I sistemi territoriali dentro e oltre la crisi

Servizio statistico Miur: Focus ‘La dispersione scolastica’ (2013)

E li chiamano Neet: dossier Anief-Confedir sull’evoluzione del quadro formativo e occupazionale dell’ultimo decennio

 

Anief-Confedir: urge una riforma che preveda una deroga nella formulazione degli organici dei docenti. Il dato è emerso incrociando gli indicatori dell’ultimo rapporto Agnelli sul sensibile taglio dei prof, con i più recenti rapporti nazionali sulla scuola italiana e sulle discrepanze di sviluppo socio-economico tra Nord e Sud. Marcello Pacifico: è la dimostrazione che occorrono regole flessibili, la scuola è fatta di alunni in carne e ossa: non si può pensare di compararla ad un’azienda dove si fabbricano robot. Il premier Renzi ne tenga conto se vuole veramente rilanciare l’istruzione nel nostro paese.

Sul fronte dell’Istruzione dei giovani il Sud è sempre più abbandonato a se stesso. La conferma arriva dall’incrocio dei dati forniti in queste ultime ore dalla Fondazione Agnelli sull’elevata percentuale di insegnanti di ruolo tagliati tra il 2007 e il 2012 - con i record negativi (tra il 16% e il 18%) riscontrati nelle province di Nuoro, Reggio Calabria e Isernia - , con quelli pubblicati da Abi-Censis sulle ‘Otto Italie in cerca di politiche di sviluppo’, da cui emerge l’impellente necessità di avviare delle “politiche economiche organiche” a partire dal Sud dove il ritardo è davvero notevole, e le indicazioni del Miur sull’alto tasso di dispersione scolastica rilevata proprio nel Mezzogiorno e nelle Isole.

Dal primo rapporto, da cui si emerge che le scuola è il comparto pubblico che più di tutti “ha contribuito in questi ultimi anni agli obblighi sempre più stringenti di rispettare i vincoli di bilancio e alla necessità di ridurre la spesa pubblica”, emerge che “dal 2007 al 2012 il personale della scuola statale (insegnanti e Ata) è diminuito del 10,9%, una percentuale quasi doppia della media del pubblico impiego”. Anche se il numero di alunni tra il 2009 e il 2012 è aumentato di 90.990 unità, quello degli insegnanti si è ridotto del 9% passando “da 843mila a 766mila: una riduzione – continua la Fondazione Agnelli - che ha toccato in eguale misura tutti i gradi scolastici, con l’eccezione della scuola dell’infanzia, e ha riguardato in modo più vistoso i docenti con un contratto a tempo determinato (-25%), mentre quelli di ruolo sono scesi del 6%”.

Quel che è particolarmente grave è che dal rapporto della fondazione piemontese emerge che, soprattutto a seguito delle “misure volute dai ministri Gelmini e Tremonti con la legge 133/2008”, sono state riscontrate “importanti differenze regionali, con province del Sud, dove la popolazione studentesca è in forte calo, che hanno registrato diminuzioni dei docenti di ruolo fino al 18%”. I tagli maggiori al corpo docente di ruolo hanno riguardato tutte province del Sud: Frosinone, Matera, Avellino, Messina, Catanzaro, Cosenza, Potenza, Nuoro, Reggio Calabria e Isernia.

Il problema è che scorrendo il rapporto territoriale Abi–Censis, realizzato su dati Istat, si evidenza che le aree dove lo “squilibrio socio-economico” è maggiore sono quelle del Sud e delle Isole. E lo stesso, tranne rare eccezioni, vale per quelle che hanno il più “basso tenore di crescita” a livello di “potenzialità rurale” o che sono “a rischio involuzione”. Mentre i territori dove c’è maggiore possibilità di crescita e sviluppo sono quelli del Nord, in particolare il Friuli, il Trentino, il Veneto, la Lombardia e il Piemonte. Con il settentrione che fa quindi “da traino”.

Anief ha appurato che queste zone coincidono (dati Miur) con quelle dove gli alunni iscritti, sia nella scuola di primo che di secondo grado, presentano un “maggior rischio di abbandono” scolastico: anche in questo caso, le regioni dove i giovani lasciano i banchi prima dei 16 anni, sono Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise e Abruzzo. E, per chiudere il cerchio, sempre il sindacato ha rilevato, attraverso un apposito dossier sul fenomeno dei Neet (Not in education, employment or training), che complessivamente in Italia conta 2 milioni 250 mila giovani tra i 15 e i 29 anni, pari al 23,9%, che il numero di gran lunga maggiore di giovani che non lavorano e non studiano è radicato sempre Sud. Con zone dove coinvolge un giovane su due.

“Questi dati – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – dimostrano che gli attuali criteri sulla formazione dell’organico dei docenti, derivanti dal D.P.R. 81 del 2009, con gruppi-classi che possono raggiungere 27-28 alunni, non può essere adottata anche nelle aree disagiate e a rischio: in quelle del Sud, in pratica, sono altri i parametri da adottare. È giunta l’ora di introdurre quindi dei criteri diversificati, sulla base dei parametri di disagio socio-economico delle singole aree. E per questo occorre prevedere delle risorse aggiuntive, ad iniziare da un diverso rapporto docenti-studenti, facendo così cadere l’unicità degli organici e della formazione delle classi. Il premier Renzi ne tenga conto nel piano di rilancio della scuola, che ha detto di voler presentare nei prossimi giorni”.

“La scuola – continua Pacifico - è fatta di alunni in carne e ossa, che hanno esigenze diverse: non è una fabbrica, non si può pensare di comparare i giovani che studiano a dei robot o a degli operai. Anche la più recente giurisprudenza sul dimensionamento scolastico ha confermato questa linea: il numero di scuole e di alunni va rapportato alle esigenze territoriali, tanto è vero che la competenza rimane esclusiva degli enti locali. A fronte, del resto, di un maggior tasso di abbandono scolastico, di Neet e di flussi migratori particolarmente accentuati, è evidente che va ripensata la modalità del servizio formativo pubblico che si va ad offrire. Solo così – conclude il rappresentante Anief-Confedir - si può pensare di rilanciare il capitale umano italiano, senza abbandonare al suo destino chi ha minori possibilità”.

Per approfondimenti:

Fondazione Agnelli: la scuola ha già dato molto

Abi-Censis: Territorio, banca, sviluppo - I sistemi territoriali dentro e oltre la crisi

Servizio statistico Miur: Focus ‘La dispersione scolastica’ (2013)

E li chiamano Neet: dossier Anief-Confedir sull’evoluzione del quadro formativo e occupazionale dell’ultimo decennio

 

E dove vengono organizzati, in un anno raddoppiano i casi di pagamento dei corsi da parte delle famiglie. Alcuni istituti li affidano addirittura agli alunni più bravi. Un fenomeno che va di pari passo al crollo di tutte le attività extra-didattiche: dalle gite all’attività motoria pomeridiana, fino ai corsi di teatro, fotografia, lingua, recupero e di valenza sociale. Marcello Pacifico (Anief-Confedir): tutta colpa dei tagli al Miglioramento dell’offerta formativa attuati dai Governi nell’ultimo biennio: quest’anno il Miur ha stanziato per le scuole appena un terzo dei fondi del 2011. E poi ci meravigliamo se in Italia i dati sull’abbandono scolastico rimangono elevati.

L’abbattimento dei fondi destinati al Miglioramento dell’offerta formativa sta costringendo le scuole superiori a non rispettare l’attivazione dei corsi dei recupero previsti per gli studenti con una o più materie insufficienti: le indicazioni introdotte con l’articolo 2 dell’ordinanza ministeriale 92/2007, voluta dall’ex ministro Giuseppe Fioroni per fare in modo che alle istituzioni scolastiche superiori venga conferito “l’obbligo di attivare gli interventi di recupero” da destinare anche agli “studenti che riportano voti di insufficienza negli scrutini intermedi”, si sono piegate agli interessi ragionieristici del Ministero dell’Economia. Sino a trasformarsi in una debacle del servizio pubblico di recupero dei cosiddetti “debiti”.

Quanto accaduto nelle ultime settimane, in corrispondenza della fine del primo quadrimestre, vale più di qualsiasi commento. Da un’indagine del portale Skuola.net, che è andato ad intervistare 2.250 studenti delle superiori, è emerso che in media a uno studente su due quest’anno non viene data la possibilità di frequentare i corsi di recupero: è un dato preoccupante, perché è raddoppiato rispetto a quello dello scorso anno, quando da un’indagine dello stesso tipo era stata solo una scuola su quattro a non organizzare le attività pomeridiane.

Altrettanto preoccupante è il fatto che anche laddove si svolgono i corsi, vi sono comunque tanti problemi organizzativi di cui fanno le spese gli alunni: appena il 15% ha infatti dichiarato di poterli frequentare per tutte le discipline, mentre il 35% ha ammesso che la scuola li ha attivati solo per alcune materie. Ma la notizia che fa più riflettere è che sono in sensibile crescita (l’11%, contro il 5% dello scorso anno) gli istituti che pretendono dei contributi per la frequenza.

Come il liceo scientifico ‘Fermi’ di Cosenza, dove il dirigente scolastico, con l’avallo degli organi collegiali, ha deciso di istituire solo lezioni di recupero a pagamento: dimenticando l’ordinanza Fioroni, che non prevedeva di certo sovvenzioni da parte dei discenti, per 7-8 euro l’ora è stata data la possibilità agli studenti di vedersi garantire una didattica aggiuntiva, ha spiegato il capo d’istituto, Michela Bilotta, tenuta dai docenti dello stesso liceo. A Bologna, addirittura, ci sono istituti, come il Copernico, dove i corsi di recupero sono tenuti dagli alunni più bravi. Sempre nel capoluogo emiliano, in alcune scuole superiori, come l’Aldini e il Manfredi-Tanari, si fa anche ricorso agli studenti universitari perché garantiscono “costi più che contenuti”.

Ma come è stato possibile arrivare a questa situazione? Alla base di tutto c’è senz’altro la riduzione progressiva del Mof, il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa. Che nell’anno scolastico in corso ha raggiunto il top di decurtazione: dai 1.480 milioni del 2010/11 si è passati a 521 milioni. C’è la possibilità che possano essere integrati, ma in pochi ci credono. In ogni caso, ad oggi ciò ha prodotto un forte taglio di risorse dal Fondo d’Istituto, quello che attraverso la contrattazione integrativa va a retribuire le attività definite dall'articolo 88 del Contratto collettivo nazionale. Tra cui figurano, oltre i corsi di recupero, anche l’impegno dei docenti "in aula" per le innovazioni, la ricerca e la flessibilità organizzativa e didattica, le attività aggiuntive di insegnamento per l’arricchimento dell’offerta formativa, la progettazione e produzione di materiali utili alla didattica, le prestazioni aggiuntive del personale Ata.

Il flop non è, quindi, solo nel mancato supporto per colmare le carenze disciplinari degli alunni. Ma di tutte le attività a supporto della didattica. Spariscono quindi corsi di teatro, fotografia, lingua, recupero, progetti di valenza sociale come quelli sul bullismo e la dislessia. Esemplare il caso di Treviso, dove a causa dei “contributi dimezzati”, sta accadendo che “dopo le attività sportive pomeridiane, rischiano di saltare anche le gite”. E che dire di quanto sta accadendo a Firenze, dove le scuole sono sempre più “aggrappate” ai contributi delle famiglie, che arrivano anche a 160 euro l’anno? Oppure a Brescia, dove si è arrivati a capitalizzare la disponibilità di ex insegnanti, oggi in pensione, per garantire, gratuitamente, l'alfabetizzazione degli stranieri?

Quest’anno a far precipitare la situazione è stata la decisione del Governo, presa in accordo con i soliti sindacati, di andare a decurtare almeno 300 milioni di euro del Mof per coprire un diritto del personale: gli scatti automatici in busta paga, divenuti noti all’opinione pubblica con il pasticcio Mef-Miur di inizio anno, quando a decine di migliaia di docenti sono stati prelevati 150 euro mensili alle buste paga più povere dell’area Ocde. Tanto da costringere il Governo a varare in fretta un decreto riparatorio per l’immediato, ma poco rassicurante per coprire gli aumenti degli anni a venire.

“Quanto sta accadendo in oltre 2mila istituti superiori italiani – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è l’inevitabile conseguenza dei tagli ai finanziamenti alle scuole, ‘figli’ della politica all’insegna del risparmio ad oltranza. Che ha come agnelli sacrificali il personale scolastico e sui utenti, alunni e famiglie. Ora, è evidente che il Mof non doveva essere toccato: è un capitolo di spesa che il Miur doveva continuare a far confluire interamente agli istituti. Privarli di questi fondi significa condannarli al disservizio sicuro. E all’innalzamento del tasso di dispersione scolastica, che in regioni come la Sardegna è doppio rispetto alla media Ue”.

Il problema è che, in prospettiva, andrà sempre peggio: l’amministrazione scolastica, come ha anche confermato in questi giorni il nuovo Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ha intenzione, attraverso il rinnovo del Ccnl, di trasformare il Fondo d’Istituto in un “tesoretto” per il merito dei docenti. “La vera intenzione dei nostri governanti – continua Pacifico – è quella di arrivare a pagare gli aumenti in busta paga, gli attuali scatti automatici, esclusivamente attraverso il Fis: quando il neoministro parla di merito e premialità, del resto, a cosa si può riferire visto che da parte dell’amministrazione l’unica politica attuata nell’ultimo quinquennio è stata quella del risparmio?”.

“Tornando ai corsi di recupero, tutto questo significa che saranno sempre più gli istituti a dover ricorrere a recuperi scolastici ‘in itinere’. Con la didattica bloccata per settimane e gli insegnanti impegnati nelle attività di ripetizione non più di pomeriggio, ma nelle ore normalmente dedicate alla didattica ordinaria. Per i dirigenti, del resto, è l’unico modo per avviare i recuperi, visto che i soldi a disposizione sono pochi. Così alla fine a pagare saranno gli alunni. E per due volte: perche usufruiranno di recuperi a singhiozzo e dovranno pure collaborare di tasca propria. Seppure nelle scuole statali la frequenza e i servizi della scuola dell'obbligo, sino al terzo anno compreso delle superiori, dovrebbe essere gratuita, come previsto – conclude il sindacalista Anief-Confedir - dall'articolo 34 della Costituzione”.

Per approfondimenti:

Scuola al palo: Governo e sindacati cancellano, in tre anni, 1 miliardo di finanziamenti per attività aggiuntive degli studenti. Tagliati 2/3 delle risorse stanziate nel 2011

Istituti allo sbando: il Miur taglia i fondi e i dirigenti si 'aggrappano' ai contributi delle famiglie

Scuole allo stremo, a Brescia si richiamano gli insegnanti in pensione per farli lavorare gratis

 

In Sardegna e Sicilia è record: abbandona troppo presto un ragazzo su quattro (il 25%), mentre la media europea è del 12,8% e in diversi paesi dell’Est si arriva anche al 5%. Marcello Pacifico (Anief-Confedir): si continua a perpetrare la stessa politica che negli ultimi sei anni ha fatto ridurre il tempo scuola dei nostri alunni di un sesto. Se il Governo Renzi vuole puntare sul rilancio dell’istruzione non segua l’apertura del Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, alla cancellazione dell’ultimo anno della secondaria di secondo grado. Le vere armi per combattere la dispersione sono l’elevazione dell’obbligo scolastico a 18 anni e il rilancio dell’alternanza scuola-lavoro.

In Italia la dispersione scolastica si conferma a livelli altissimi: anche se tra il 2004 e il 2012 il fenomeno si è ridotto, ad oggi la quota di giovani che interrompe precocemente gli studi rimane del 17,6 per cento, il 20,5 tra i ragazzi e il 14,5 tra le ragazze. Tanto è vero che siamo terzultimi in Europa. A sostenerlo, attraverso un dettagliato report, realizzato su dati Istat, è oggi la rivista specializzata Orizzonte Scuola. Che si sofferma sul gap a livello nazionale tra Nord e Sud, con Sardegna e Sicilia a guidare la classifica degli abbandoni prematuri con percentuali vicine al 25%.

Per comprendere il grave ritardo rispetto all’Europa, basta dire che nel 2012 il valore medio dell’indicatore nell’Ue27 si è attestato al 12,8%. Con alcuni Paesi dell’Est, come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia, che vantano quote particolarmente virtuose: addirittura attorno al 5 per cento. Inoltre, con quali prospettive l’Italia si avvicina al 2020, quando, secondo le indicazioni di Bruxelles, la dispersione scolastica massima di ogni Paese dovrebbe essere del 10%?

Preso atto di questo ritardo particolarmente grave, Anief-Confedir reputa illogico che il nuovo corso del Miur, attraverso le dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che ha parlato di “modello internazionale” da importare, sia orientato a ridurre di un anno il percorso formativo della scuola superiore: trasformare l’attuale sperimentazione, oggi concessa a nove istituti, in una organizzazione da far adottare all’intera filiera scolastica sarebbe un errore imperdonabile. Anche perché occorre ricordare che la stessa sperimentazione è viziata dal mancato via libera, indispensabile per le norme vigenti, del Cnpi. Il quale, nel frattempo, è stato anche fatto illegittimamente decadere.

Come già rilevato più volte dal sindacato e ribadito nel corso della conferenza “Spendere meno, spendere meglio”, a seguito dei tagli draconiani adottati in Italia negli ultimi sei anni l’orario scolastico dei nostri alunni è stato ridotto di un sesto. Con il risultato che oggi l’Italia detiene il triste primato di proporre un’offerta formativa di 4.455 ore studio nell’istruzione primaria (rispetto alle 4.717 dell’Ocse) e 2.970 in quella superiore di primo grado (rispetto alle 3.034 sempre dell’Ocse), con un tasso di Neet tra i 15 e i 29 anni del 23,2% rispetto al 15,8% dell’Ocse.

“L’alto tasso di abbandono scolastico che permane nel nostro Paese – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è la dimostrazione che diminuendo il tempo scuola non si migliora affatto la formazione scolastica. Se il Governo vuole veramente puntare sul rilancio della scuola e ridurre la disoccupazione, che ha raggiunto il 12,9% con un milione di posti persi dal 2008, porti l’obbligo formativo da 16 a 18 anni. E investa finalmente sull’alternanza scuola-lavoro: su stage e tirocini occorre una seria riforma, in modo da costituire dei poli formativi alternativi ai licei”.

“È avvilente pensare – continua Pacifico – che invece di puntare su questi investimenti, si continui a pensare di ridurre di un anno il percorso della scuola superiore: si tratta di un’operazione anti-pedagogica che non farebbe altro che incrementare la dispersione scolastica. Il tutto per agevolare, è inutile negarlo, il cinico piano ministeriale di soppressione di 40mila cattedre e 50mila posti complessivi: un’operazione che già il Governo Monti aveva quantificato in un risparmio nazionale pari a 1.380 milioni di euro. Producendo su larga scala – conclude il rappresentante Anief-Confedir – quella contestazione che in questi giorni stanno conducendo i docenti di Filosofia, ma anche di Latino e Greco, a cui si vorrebbero già sottrarre le ore di insegnamento”.

 

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