Rifiorme

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Il sindacato ha chiesto audizione informale alla VII Commissione permanente per presentare un emendamento al ddl n. 1260, relatore sen. Francesca Puglisi (PD), recante 'Disposizioni in materia di sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino ai sei anni e del diritto delle bambine e dei bambini alle pari opportunità di apprendimento'. Marcello Pacifico (Anief): è una modifica a costo zero che porterebbe vantaggi formativi e occupazionali, in Europa sono 12 i paesi che prevedono un periodo di frequenza obbligatorio della scuola più lungo del nostro.

Se si vuole fermare la piaga crescente sulla dispersione e sull’esercito di giovani che non studiano e non lavorano non c’è più tempo da perdere: si anticipi l’avvio della scuola a 5 anni e si estenda l’istruzione dagli attuali 16 anni fino alla maggiore età. L’Anief ha deciso di presentare la proposta nel corso dell’audizione chiesta alla VII Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in merito all’esame del ddl n. 1260, relatore alla Commissione sen. Francesca Puglisi (PD), recante 'Disposizioni in materia di sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino ai sei anni e del diritto delle bambine e dei bambini alle pari opportunità di apprendimento'.

Con l’emendamento ad disegno di legge, che ha come macro-obiettivo “l'estensione dell'educazione prescolare su tutto il territorio nazionale”, il sindacato intende passare ai fatti al fine di porre dei correttivi ad un sistema scolastico sempre più in crisi. Gli ultimi allarmanti dati sull’alto tasso di abbandoni precoci degli studi, dell’innalzamento della disoccupazione giovanile e dei Neet parlano chiaro. E anche gli ultimissimi numeri sui giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano: un “esercito” che si allarga di mese in mese, con oltre 2 milioni 250 mila giovani (il 24%).

La loro entità, ci dice l’Istat, dal 2008 è aumentata “del 21,1% (+391mila giovani)”. È un andamento di cui occorre preoccuparsi. L’incremento annuo già molto sostenuto nel 2009 e nel 2010, ha fatto registrare un consistente aumento nel 2012. Solo Grecia e Bulgaria presentano incidenze maggiori (27,1 e 24,7%) di Neet. In Italia la quota è infatti molto superiore a quella media dell’Ue27 (rispettivamente 23,9 e 15,9%). Rispetto ad alcuni paesi “vicini”, il confronto diventa quasi imbarazzante: Germania (9,6%), Francia (15,0%) e Regno Unito (15,4%). Anche la martoriata Spagna fa registrare una quota di Neet inferiore (22,6%).

In Italia il fenomeno è più spiccato al Sud: l’incidenza dei giovani che non studiano e non lavorano raggiunge il livello più alto, il 33,3% (contro il 17,6% nel Centro-Nord), ponendo in luce le criticità di accesso all’occupazione per un gran numero di giovani residenti nel meridione. Sicilia e Campania detengono le quote più elevate, con valori rispettivamente pari al 37,7 e 35,4%, seguite da Calabria e Puglia, con livelli pari al 33,8 e al 31,2%.

Anief torna a ribadire che a fronte di questi dati rimane incomprensibile come nell’ultimo quinquennio nel Mezzogiorno i Governi che si sono succeduti abbiano potuto operare i tagli maggiori al corpo docente di ruolo (fino al 18%) e non di ruolo (anche del 25%). I dati ufficiali indicano, infatti, una riduzione cospicua di insegnanti proprio nelle province del Sud: Frosinone, Matera, Avellino, Messina, Catanzaro, Cosenza, Potenza, Nuoro, Reggio Calabria e Isernia.

Attraverso l’emendamento al ddl, il sindacato chiederà quindi di adottare con estrema urgenza un rimedio radicale: anticipare a 5 anni l’inizio della didattica e ‘coprire’ tutti i cicli scolastici, sino al conseguimento del diploma di maturità, superando così l’obbligo scolastico oggi fermo a 16 anni. Con questo doppio passaggio si anticiperebbe la frequenza della scuola, ma senza incidere nella spesa dello Stato. Con una serie di indubbi vantaggi. Ad iniziare dalla riduzione di abbandoni.

Se i dirigenti di tutti gli istituti scolastici fossero infatti obbligati a far frequentare gli alunni, come avviene oggi nella scuola media e fino al biennio iniziale della secondaria, non ci ritroveremmo con le massime autorità dello Stato in materia di Istruzione pubblica che ammettono l’esistenza di un “problema drammatico soprattutto nel Mezzogiorno”, perché più di uno studente su dieci lascia proprio in quella fascia di età.

Obbligando i nostri giovani a frequentare la scuola fino alla maggiore età, quindi, si sposterebbe più avanti questo momento di “crisi”. Quando però la maggior parte dei nostri giovani avrà almeno in tasca il diploma di maturità. Mentre oggi (dati Censis) il 26% degli studenti iscritti negli istituti superiori statali al termine dei cinque anni non arriva a conseguire il titolo. Con le scuole del Sud che, ancora una volta, si ergono a leader negative: nella provincia di Napoli, ad esempio, negli istituti tecnici la percentuali di studenti che risultano dispersi nel quinquennio supera il 45%.

L’obiettivo è superare l’attuale legislazione sull'obbligo formativo, ridefinita dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, n.76, art.1 e cioè come "diritto-dovere all'istruzione e alla formazione sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età": a distanza di quasi 10 anni dalla sua approvazione, questo modello debole di frequenza ha infatti dimostrato tutta la sua inefficacia.

“Portando l’obbligo scolastico da 10 anni a 13 complessivi – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - , e anticipando a 5 l’inizio della scuola, si permetterebbe ai nostri bambini di poter essere guidati prima nella sempre più difficile gestione del flusso sempre più esteso di informazioni e stimoli esterni. Nel corso del tempo, ciò permetterebbe di agire su quel 36% di giovani che oggi decidono di non iscriversi ad un corso di laurea: più di 150mila ragazzi che ogni anno lo Stato dovrebbe preparare al meglio per il mondo del lavoro. C’è solo un modo per farlo: fargli frequentare, negli ultimi tre anni di scuola tra i 15 e i 18 anni di età, delle forme avanzate di alternanza scuola-lavoro. In tal modo, questi giovani si renderebbero più appetibili alle aziende, riducendo anche del 40% la possibilità che diventino disoccupati ed evitando che vadano ad ingrossare la già folta categoria dei Neet”.

Nel vecchio Continente l’obbligo formativo fino a 18 anni è già previsto in diversi paesi: proprio per ridurre i tassi di abbandono precoce, oltre ad assicurare a tutti gli studenti un titolo di studio, in tredici paesi la durata dell’istruzione obbligatoria a tempo pieno è stata prolungata di uno o due anni, o perfino di tre come nel caso del Portogallo a seguito a recenti riforme. E anche l’inizio prima dei 6 anni è già ampiamente sperimentato con successo, visto che in dieci paesi l’istruzione obbligatoria è stata anticipata di un anno (o addirittura di due, come in Lettonia). E la partecipazione dei bambini di 3 anni all’istruzione preprimaria è ormai quasi totale in Belgio, Danimarca, Spagna, Francia e Islanda. Con paesi, come l’Ungheria, dove il corso di studi totale dura anche 13 anni: ben tre più dell’Italia.

Come si attua l’obbligo scolastico in Europa

Paese
Inizio obbligo
Fine obbligo
Durata obbligo
Austria
6
15
9
Belgio
6
18*
12
Bulgaria
7
16
9
Cipro
5
15
10
Danimarca
6
16
10
Estonia
7
16
9
Finlandia
7
16
9
Francia
6
16
10
Galles
5
16
11
Germania
6
19*
13
Grecia
5
15
10
Inghilterra
5
16
11
Irlanda
6
16
10
Irlanda del Nord
4
16
12
Islanda
6
16
12
Italia
6
16
10
Lettonia
5
16
11
Liechtenstein
6
15
9
Lituania
7
16
9
Lussemburgo
4
15
11
Malta
5
16
11
Norvegia
6
16
10
Paesi Bassi
5
18
11
Polonia
6
18*
9
Portogallo
6
15
9
Repubblica Ceca
6
15
9
Romania
6
16
10
Scozia
5
16
11
Slovacchia
6
16
10
Slovenia
6
15
9
Spagna
6
16
10
Svezia
7
16
9
Turchia
6
14
8
Ungheria
5
18
13

 

Per approfondimenti:

Giovani: in 5 anni raddoppiati i disoccupati, senza una controriforma della scuola andrà sempre peggio

Obbligo scolastico, tendenza in Europa a prolungarlo. Italia, tra riforme e nuove proposte

Rapporto AlmaDiploma sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati di scuola secondaria superiore ad uno, tre e cinque anni dal diploma

 

Analisi sindacale dei dati ufficiali dal 2001 ad oggi: nell’ultimo biennio le collocazioni in quiescenza si sono fortemente ridotte. Anche perché l’81% degli insegnanti sono donne e su di loro la “stretta” pensionistica si è abbattuta di più.

Marcello Pacifico (Anief-Confedir): considerando che negli ultimi 13 anni hanno lasciato il lavoro 37 mila insegnanti in più rispetto al numero di assunzioni, non coprendo nemmeno il turn over, l’età media del nostro corpo docente si sta innalzando vertiginosamente. Fa rabbia, perché in altri comparti pubblici si continua ad andare in pensione a 54 anni. Eppure allo Stato converrebbe svecchiare il personale: mantenendo un esercito di precari, solo nella scuola ogni anno butta 348 milioni di euro. Per cambiare corso servono tre “mosse”: approvare una deroga per la scuola sui pensionamenti, mandare via dal 1° settembre i 4 mila ‘Quota 96’ e assumere alla stessa data 125 mila supplenti.

Sulla scuola italiana la riforma pensionistica Fornero-Monti sta producendo effetti devastanti. Nell’ultimo biennio, da quando è entrata in vigore la “stretta” sui requisiti per lasciare il lavoro, il numero di docenti collocati in pensione si è ridotto in modo esponenziale: quest’anno se ne sono andati meno di 11 mila insegnanti, il precedente erano stati il doppio. Se andiamo indietro nel tempo il gap diventa abissale: rispetto agli attuali, all’inizio del 2009/2010 i prof andati in pensione erano il triplo e nel 2007 oltre quattro volte (abbandonarono la cattedra in 43.620). E la situazione è ormai stagnante. Per il prossimo mese di settembre, l’Inps ha comunicato che saranno circa 13 mila ad essere collocati in quiescenza: un po’ di più del 2013, ma nulla a che vedere con i numeri di ben altro spessore di appena cinque e sette anni prima.

Sono diversi i motivi all’origine del gap di accesso ai pensionamenti che si è venuto a creare in così pochi anni: tra i vari, però, un peso specifico particolare è costituito dall’entrata in vigore della riforma Fornero, con effetto immediato dal 1° gennaio 2012, che ha particolarmente penalizzato le donne. Le quali nel comparto istruzione rappresentano l’81% del personale. È tutto dire che da quest’anno per accedere alla pensione di vecchiaia serviranno 63 anni e 9 mesi di età; per quella anticipata, un’anzianità contributiva di 41 anni e 6 mesi (per gli uomini un anno in più). E negli anni a venire i requisiti si alzeranno ancora: quando la riforma Fornero entrerà a regime si lascerà la cattedra, come tutti i lavori del pubblico impiego, non prima dei 67 anni compiuti.

A fronte di questi cambiamenti, è normale che il corpo docente italiano, già tra i più vecchi al mondo, sia sempre più caratterizzato dalla presenza di ultra sessantenni. Attualmente, in base ai dati ufficiali aggiornati, l’età media delle immissioni in ruolo è alle soglie dei 40 anni di età. Con il risultato che ormai l’età media di un insegnante italiano è ben oltre i 50 anni. È emblematico anche il dato sui nostri insegnanti under 30: sono presenti per appena lo 0,5%, mentre in
Germania sono sette volte di più, il 3,6%, in
Austria e Islanda il 6% e in Spagna il 6,8%.

“Ad aggravare la situazione ci si è messa l’inerzia degli ultimi governi italiani – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – , che negli ultimi 13 anni non hanno nemmeno coperto il turn over: se si sommano le operazioni anno per anno, i pensionamenti hanno superato le assunzioni addirittura di 37 mila unità”. I numeri ufficiali parlano chiaro: dal 2001 ad oggi lo Stato italiano ha assunto nelle scuole pubbliche 258.206 insegnanti. Mentre nello stesso periodo quelli che hanno lasciato il servizio per la pensione sono stati molti di più: 295.200. Le assunzioni non sono bastate nemmeno a coprire tutti quei posti liberi, ben 311.364, che sempre a partire dal 2001 sono stati dichiarati dal Miur ufficialmente vacanti (un numero tra l’altro ridimensionato per la presenze di decine di migliaia di cattedre collocate al 30 giugno anziché al 31 agosto).

Nel nostro paese si continua a pensare, a torto, che l’insegnamento non è tra le categorie professionali più a rischio burnout. Tanto è vero che gli anticipi sui pensionamenti sono previste solo per altre tipologie di dipendenti. Come quelli in forza ai comparti Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico, che ancora oggi possono lasciare a 57 anni, in certi casi a 53: in questi casi, infatti, la somma età-contributi si ferma non a quota 96, ma addirittura a 92 anni. Tanto è vero che nel primo semestre 2013 i dati ufficiali emessi dall’Inps hanno rivelato che i corpi di polizia hanno lasciato il servizio in media a 54,8 anni ed i militari a 57 anni. È davvero grave che a fronte di queste deroghe per gli insegnanti la soglia della pensione è stata posticipata, a regime, a 67-68 anni.

“Nella scuola – continua il sindacalista Anief-Confedir - lo Stato concede la possibilità di lasciare con i vecchi requisiti solo a tutti i dipendenti della scuola soprannumerari (Circolare n. 3/2013 della Funzione Pubblica) poiché rimasti senza cattedra o posto. Però in uno stato di diritto le deroghe non solo approvate a giorni alterni, in base alla mera convenienza dell’amministrazione, ma vengono adottate in tutti quei casi in cui le necessità lo impongono. Ed in questo caso i motivi ci sono tutti, visto che i più autorevoli studi epidemiologici sugli insegnanti convergono su un punto: lavorare con gli studenti è iperlogorante. E quindi non si può mandare un docente in pensione in tarda età”.

Anief torna quindi a riproporre pubblicamente al governo l’unica soluzione praticabile per uscire da questa situazione: trasformare in tutor per nuovi docenti tutti coloro che hanno alle spalle un congruo numero di anni di insegnamento, almeno 25-30. Con conseguente sottrazione, parziale o totale, delle ore di didattica frontale. L’opera di tutoraggio e di supervisione dell’operato dei giovani insegnanti, permetterebbe sia di svecchiare il personale in cattedra, sia di migliorare la qualità complessiva dell’insegnamento, visto che le nuove generazioni di docenti potrebbero ereditare tante conoscenze, capacità e competenze.

Inoltre, vanno collocati in pensione, nella prossima estate per decreto, i 4 mila ‘Quota 96’ rimasti bloccati proprio dalla riforma Fornero. A sostenere le spese per il collocamento in pensione dei ‘Quota 96’ saranno in prevalenza i risparmi derivanti dal ben più leggero stipendio (anche del 40%) che lo Stato assegna ai neo assunti rispetto ai docenti a fine carriera. E contestualmente va approvato un piano straordinario di immissioni in ruolo pari ad almeno 125 mila unità: 50 mila curricolari, altrettanti docenti di sostegno e 25 mila Ata. Perché i posti ci sono ed il personale è già stato selezionato e specializzato per ricoprire questo ruolo. Sbaglia chi dice che non ci sono i fondi: si tratta di operazioni che non comportano oneri. Anzi, conti alla mano allo Stato non conviene mantenere il personale in uno stato di perenne precarietà: poche settimane fa la Ragioneria dello Stato ha rilevato che dal 2007 le spese per il personale a tempo determinato sono aumentate di 348 milioni di euro (+68%), mentre nella Sanità – dove si è proceduto alla stabilizzazione di 24.000 dipendenti – si è prodotto un risparmio di 80 milioni di euro.

“Serve solo la volontà politica – conclude Pacifico –, da mettere in moto prima di subito. Prima che lo impongano gli eventi giudiziari. Che potrebbero portare l’Italia a essere condannata a risarcire danni superiori ai 4 miliardi di euro per abuso di contratti di precariato”.

Pensionamenti, posti liberi e assunzioni docenti della scuola pubblica dall'anno scolastico 2001/02 all'anno scolastico 2013/14

Anno Scolastico
Pensionamenti docenti e educatori
Posti docenti vacanti fino al 31/8

Posti docenti vacanti fino al 30/6

Assunzioni docenti ed educatori
2013/14*
 
    4.447
2013/14
10.860
12.055
108.284
11.268
2012/13
21.354
9.465
98.410
21.112
2011/12
27.400
22.700
83.572
30.300
2010/11
25.662
23.177
83.821
10.000
2009/10
31.701
23.277
93.696
8.000
2008/09
19.130
20.000
111.000
25.000
2007/08
43.620
22.000
120.000
50.000
2006/07
28.772
32.000
120.000
20.000
2005/06
22.392
28.773
99.584
35.000
2004/05
15.881
33.370
93.631
12.500
2003/04
17.574
33.626
78.240
0
2002/03
15.594
26.296
78.753
0
2001/02
15.260
24.625
72.290
30.579
TOTALI
295.200
311.364
1.241.281
258.206
*solo docenti di sostegno

                                                                  Raccolta ed elaborazione dati a cura dell'Ufficio Studi Anief

 

Per approfondimenti:

Sui 140 mila precari la Corte di Giustizia europea prende tempo, l’Italia ne approfitti

Dal 2001 assunti 258 mila insegnanti ma dovevano essere molti di più: in pensione in 295 mila e 311 mila posti liberi

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Analisi sindacale dei dati ufficiali dal 2001 ad oggi: nell’ultimo biennio le collocazioni in quiescenza si sono fortemente ridotte. Anche perché l’81% degli insegnanti sono donne e su di loro la “stretta” pensionistica si è abbattuta di più.

Marcello Pacifico (Anief-Confedir): considerando che negli ultimi 13 anni hanno lasciato il lavoro 37 mila insegnanti in più rispetto al numero di assunzioni, non coprendo nemmeno il turn over, l’età media del nostro corpo docente si sta innalzando vertiginosamente. Fa rabbia, perché in altri comparti pubblici si continua ad andare in pensione a 54 anni. Eppure allo Stato converrebbe svecchiare il personale: mantenendo un esercito di precari, solo nella scuola ogni anno butta 348 milioni di euro. Per cambiare corso servono tre “mosse”: approvare una deroga per la scuola sui pensionamenti, mandare via dal 1° settembre i 4 mila ‘Quota 96’ e assumere alla stessa data 125 mila supplenti.

Sulla scuola italiana la riforma pensionistica Fornero-Monti sta producendo effetti devastanti. Nell’ultimo biennio, da quando è entrata in vigore la “stretta” sui requisiti per lasciare il lavoro, il numero di docenti collocati in pensione si è ridotto in modo esponenziale: quest’anno se ne sono andati meno di 11 mila insegnanti, il precedente erano stati il doppio. Se andiamo indietro nel tempo il gap diventa abissale: rispetto agli attuali, all’inizio del 2009/2010 i prof andati in pensione erano il triplo e nel 2007 oltre quattro volte (abbandonarono la cattedra in 43.620). E la situazione è ormai stagnante. Per il prossimo mese di settembre, l’Inps ha comunicato che saranno circa 13 mila ad essere collocati in quiescenza: un po’ di più del 2013, ma nulla a che vedere con i numeri di ben altro spessore di appena cinque e sette anni prima.

Sono diversi i motivi all’origine del gap di accesso ai pensionamenti che si è venuto a creare in così pochi anni: tra i vari, però, un peso specifico particolare è costituito dall’entrata in vigore della riforma Fornero, con effetto immediato dal 1° gennaio 2012, che ha particolarmente penalizzato le donne. Le quali nel comparto istruzione rappresentano l’81% del personale. È tutto dire che da quest’anno per accedere alla pensione di vecchiaia serviranno 63 anni e 9 mesi di età; per quella anticipata, un’anzianità contributiva di 41 anni e 6 mesi (per gli uomini un anno in più). E negli anni a venire i requisiti si alzeranno ancora: quando la riforma Fornero entrerà a regime si lascerà la cattedra, come tutti i lavori del pubblico impiego, non prima dei 67 anni compiuti.

A fronte di questi cambiamenti, è normale che il corpo docente italiano, già tra i più vecchi al mondo, sia sempre più caratterizzato dalla presenza di ultra sessantenni. Attualmente, in base ai dati ufficiali aggiornati, l’età media delle immissioni in ruolo è alle soglie dei 40 anni di età. Con il risultato che ormai l’età media di un insegnante italiano è ben oltre i 50 anni. È emblematico anche il dato sui nostri insegnanti under 30: sono presenti per appena lo 0,5%, mentre in
Germania sono sette volte di più, il 3,6%, in
Austria e Islanda il 6% e in Spagna il 6,8%.

“Ad aggravare la situazione ci si è messa l’inerzia degli ultimi governi italiani – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – , che negli ultimi 13 anni non hanno nemmeno coperto il turn over: se si sommano le operazioni anno per anno, i pensionamenti hanno superato le assunzioni addirittura di 37 mila unità”. I numeri ufficiali parlano chiaro: dal 2001 ad oggi lo Stato italiano ha assunto nelle scuole pubbliche 258.206 insegnanti. Mentre nello stesso periodo quelli che hanno lasciato il servizio per la pensione sono stati molti di più: 295.200. Le assunzioni non sono bastate nemmeno a coprire tutti quei posti liberi, ben 311.364, che sempre a partire dal 2001 sono stati dichiarati dal Miur ufficialmente vacanti (un numero tra l’altro ridimensionato per la presenze di decine di migliaia di cattedre collocate al 30 giugno anziché al 31 agosto).

Nel nostro paese si continua a pensare, a torto, che l’insegnamento non è tra le categorie professionali più a rischio burnout. Tanto è vero che gli anticipi sui pensionamenti sono previste solo per altre tipologie di dipendenti. Come quelli in forza ai comparti Sicurezza, Difesa e Soccorso pubblico, che ancora oggi possono lasciare a 57 anni, in certi casi a 53: in questi casi, infatti, la somma età-contributi si ferma non a quota 96, ma addirittura a 92 anni. Tanto è vero che nel primo semestre 2013 i dati ufficiali emessi dall’Inps hanno rivelato che i corpi di polizia hanno lasciato il servizio in media a 54,8 anni ed i militari a 57 anni. È davvero grave che a fronte di queste deroghe per gli insegnanti la soglia della pensione è stata posticipata, a regime, a 67-68 anni.

“Nella scuola – continua il sindacalista Anief-Confedir - lo Stato concede la possibilità di lasciare con i vecchi requisiti solo a tutti i dipendenti della scuola soprannumerari (Circolare n. 3/2013 della Funzione Pubblica) poiché rimasti senza cattedra o posto. Però in uno stato di diritto le deroghe non solo approvate a giorni alterni, in base alla mera convenienza dell’amministrazione, ma vengono adottate in tutti quei casi in cui le necessità lo impongono. Ed in questo caso i motivi ci sono tutti, visto che i più autorevoli studi epidemiologici sugli insegnanti convergono su un punto: lavorare con gli studenti è iperlogorante. E quindi non si può mandare un docente in pensione in tarda età”.

Anief torna quindi a riproporre pubblicamente al governo l’unica soluzione praticabile per uscire da questa situazione: trasformare in tutor per nuovi docenti tutti coloro che hanno alle spalle un congruo numero di anni di insegnamento, almeno 25-30. Con conseguente sottrazione, parziale o totale, delle ore di didattica frontale. L’opera di tutoraggio e di supervisione dell’operato dei giovani insegnanti, permetterebbe sia di svecchiare il personale in cattedra, sia di migliorare la qualità complessiva dell’insegnamento, visto che le nuove generazioni di docenti potrebbero ereditare tante conoscenze, capacità e competenze.

Inoltre, vanno collocati in pensione, nella prossima estate per decreto, i 4 mila ‘Quota 96’ rimasti bloccati proprio dalla riforma Fornero. A sostenere le spese per il collocamento in pensione dei ‘Quota 96’ saranno in prevalenza i risparmi derivanti dal ben più leggero stipendio (anche del 40%) che lo Stato assegna ai neo assunti rispetto ai docenti a fine carriera. E contestualmente va approvato un piano straordinario di immissioni in ruolo pari ad almeno 125 mila unità: 50 mila curricolari, altrettanti docenti di sostegno e 25 mila Ata. Perché i posti ci sono ed il personale è già stato selezionato e specializzato per ricoprire questo ruolo. Sbaglia chi dice che non ci sono i fondi: si tratta di operazioni che non comportano oneri. Anzi, conti alla mano allo Stato non conviene mantenere il personale in uno stato di perenne precarietà: poche settimane fa la Ragioneria dello Stato ha rilevato che dal 2007 le spese per il personale a tempo determinato sono aumentate di 348 milioni di euro (+68%), mentre nella Sanità – dove si è proceduto alla stabilizzazione di 24.000 dipendenti – si è prodotto un risparmio di 80 milioni di euro.

“Serve solo la volontà politica – conclude Pacifico –, da mettere in moto prima di subito. Prima che lo impongano gli eventi giudiziari. Che potrebbero portare l’Italia a essere condannata a risarcire danni superiori ai 4 miliardi di euro per abuso di contratti di precariato”.

Pensionamenti, posti liberi e assunzioni docenti della scuola pubblica dall'anno scolastico 2001/02 all'anno scolastico 2013/14

Anno Scolastico
Pensionamenti docenti e educatori
Posti docenti vacanti fino al 31/8

Posti docenti vacanti fino al 30/6

Assunzioni docenti ed educatori
2013/14*
 
    4.447
2013/14
10.860
12.055
108.284
11.268
2012/13
21.354
9.465
98.410
21.112
2011/12
27.400
22.700
83.572
30.300
2010/11
25.662
23.177
83.821
10.000
2009/10
31.701
23.277
93.696
8.000
2008/09
19.130
20.000
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43.620
22.000
120.000
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2006/07
28.772
32.000
120.000
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2005/06
22.392
28.773
99.584
35.000
2004/05
15.881
33.370
93.631
12.500
2003/04
17.574
33.626
78.240
0
2002/03
15.594
26.296
78.753
0
2001/02
15.260
24.625
72.290
30.579
TOTALI
295.200
311.364
1.241.281
258.206
*solo docenti di sostegno

                                                                  Raccolta ed elaborazione dati a cura dell'Ufficio Studi Anief

 

Per approfondimenti:

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A proporlo è l’Anief, dopo aver preso visione degli ultimi dati sulla dispersione e dell’esercito di giovani che non studiano e non lavorano: in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia i dati più allarmanti, con punte del 45% di studenti che non arrivano al diploma. E la “forbice” rispetto all’Ue si allarga: solo Grecia e Bulgaria hanno più Neet di noi. Per il sindacato non c’è più tempo da perdere: si estenda l’istruzione a 13 anni e si apra all’alternanza scuola-lavoro. Così si agirebbe su quel 36% di giovani che oggi non si iscrivono ad un corso di laurea e non lavorano. Recuperando i 50mila 15enni che ogni anno lasciano i banchi proprio quando cade l’obbligo di frequenza. Per chiudere il cerchio urge poi una riforma dei centri d’impiego e di formazione adulti.

Anticipare la primaria quando gli alunni hanno ancora 5 anni anziché 6 ed estendere l’obbligo scolastico dagli attuali 16 fino ai 18 anni di età: a proporlo è l’associazione sindacale Anief, a seguito della pubblicazione degli ultimi allarmanti dati ufficiali sull’alto numero di abbandoni precoci degli studi, dell’innalzamento della disoccupazione giovanile e dei Neet. Gli ultimissimi numeri sui giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono quelli di un “esercito” che si allarga di mese in mese: ormai sono oltre 2 milioni 250 mila, pari al 24%.

Il loro numero, ci dice l’Istat, dal 2008 è aumentato “del 21,1% (+391mila giovani)”. È un andamento di cui occorre preoccuparsi. L’incremento annuo già molto sostenuto nel 2009 e nel 2010, ha fatto registrare un consistente aumento nel 2012. Solo Grecia e Bulgaria presentano incidenze maggiori (27,1 e 24,7%) di Neet. In Italia la quota è infatti molto superiore a quella media dell’Ue27 (rispettivamente 23,9 e 15,9%). Rispetto ad alcuni paesi “vicini”, il confronto diventa quasi imbarazzante: Germania (9,6%), Francia (15,0%) e Regno Unito (15,4%). Anche la martoriata Spagna fa registrare una quota di Neet inferiore (22,6%).

Nel nostro paese il fenomeno è più spiccato al Sud: l’incidenza dei giovani che non studiano e non lavorano raggiunge il livello più alto, il 33,3% (contro il 17,6% nel Centro-Nord), ponendo in luce le criticità di accesso all’occupazione per un gran numero di giovani residenti nel meridione. Sicilia e Campania detengono le quote più elevate, con valori rispettivamente pari al 37,7 e 35,4%, seguite da Calabria e Puglia, con livelli pari al 33,8 e al 31,2%.

Anief torna a ribadire che a fronte di questi dati rimane incomprensibile come nell’ultimo quinquennio nel Mezzogiorno i Governi che si sono succeduti abbiano potuto operare i tagli maggiori al corpo docente di ruolo (fino al 18%) e non di ruolo (anche del 25%). I dati ufficiali indicano, infatti, una riduzione cospicua di insegnanti proprio nelle province del Sud: Frosinone, Matera, Avellino, Messina, Catanzaro, Cosenza, Potenza, Nuoro, Reggio Calabria e Isernia.

Alla luce di questi numeri, considerando che chi dirige l’amministrazione scolastica non ha alcuna intenzione di potenziare il corpo insegnante che opera nelle zone del paese più a rischio abbandoni scolastici, introducendo dei criteri differenziati nella formulazione dell’organico del personale, Anief ritiene che occorra adottare con estrema urgenza un rimedio radicale: anticipare a 5 anni l’inizio della didattica e ‘coprire’ tutti i cicli scolastici, sino al conseguimento del diploma di maturità, superando così l’obbligo scolastico oggi fermo a 16 anni. Con questo doppio passaggio si manterrebbe l’attuale durata complessiva degli studi, 13 anni, senza quindi incidere nella spesa dello Stato. Ma si verrebbero a determinare diversi vantaggi. Ad iniziare dalla riduzione di abbandoni.

Se i dirigenti di tutti gli istituti scolastici fossero infatti obbligati a far frequentare gli alunni, come avviene oggi nella scuola media e fino al biennio iniziale della secondaria, non ci ritroveremmo con le massime autorità dello Stato in materia di Istruzione pubblica che ammettono l’esistenza di un “problema drammatico soprattutto nel Mezzogiorno”, perché più di uno studente su dieci lascia proprio in quella fascia di età.

Obbligando i nostri giovani a frequentare la scuola fino alla maggiore età, quindi, si sposterebbe più avanti questo momento di “crisi”. Quando però la maggior parte dei nostri giovani avrà almeno in tasca il diploma di maturità. Mentre oggi (dati Censis) il 26% degli studenti iscritti negli istituti superiori statali al termine dei cinque anni non arriva a conseguire il titolo. Con le scuole del Sud che, ancora una volta, si ergono a leader negative: nella provincia di Napoli, ad esempio, negli istituti tecnici la percentuali di studenti che risultano dispersi nel quinquennio supera il 45%.

L’obiettivo è quindi superare l’attuale legislazione sull'obbligo formativo, ridefinita dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, n.76, art.1 e cioè come "diritto-dovere all'istruzione e alla formazione sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età": a distanza di quasi 10 anni dalla sua approvazione, questo modello debole di frequenza ha infatti dimostrato tutta la sua inefficacia.

“Estendendo invece direttamente l’obbligo scolastico da 10 anni a 13 complessivi – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - , si potrebbe agire su quel 36% di giovani che oggi decidono di non iscriversi ad un corso di laurea: più di 150mila ragazzi che ogni anno lo Stato dovrebbe preparare al meglio per il mondo del lavoro. C’è solo un modo per farlo: fargli frequentare, negli ultimi tre anni di scuola tra i 15 e i 18 anni di età, delle forme avanzate di alternanza scuola-lavoro. In tal modo, questi giovani si renderebbero più appetibili alle aziende, riducendo anche del 40% la possibilità che diventino disoccupati ed evitando che vadano ad ingrossare la già folta categoria dei Neet. E il Miur non ci venga a dire che si tratterebbe di un’operazione in controtendenza”.

In Europa l’obbligo formativo fino a 18 anni è già previsto in diversi paesi: proprio per ridurre i tassi di abbandono precoce, oltre ad assicurare a tutti gli studenti un titolo di studio, in tredici paesi la durata dell’istruzione obbligatoria a tempo pieno è stata prolungata di uno o due anni, o perfino di tre come nel caso del Portogallo a seguito a recenti riforme. E anche l’inizio prima dei 6 anni è già ampiamente sperimentato con successo, visto che in dieci paesi l’istruzione obbligatoria è stata anticipata di un anno (o addirittura di due, come in Lettonia). E la partecipazione dei bambini di 3 anni all’istruzione pre-primaria è ormai quasi totale in Belgio, Danimarca, Spagna, Francia e Islanda. Con paesi, come l’Ungheria, dove il corso di studi totale dura anche 13 anni.

“Una volta formati i nostri giovani – continua Pacifico – non occorre però pensare che tutti i problemi siano risolti: occorrerà anche rivedere i centri dell’impiego. Creando delle strutture in grado finalmente di intercettare le richieste del mercato del lavoro e comunicare i dati direttamente ai centri di formazione. Solo rendendo comunicante il mondo della scuola e quello del lavoro si potrà infatti ridurre il fenomeno dei Neet e della disoccupazione”.

“Senza dimenticare che occorre il prima possibile attivare quei Centri di formazione per adulti che la legge vorrebbe già in funzione. Invece, proprio in questi giorni l’Anief ha denunciato che al contrario di quel che sostiene il regolamento nazionale, approvato oltre un anno fa, appena il 6,6% tra i 25 ed i 64 anni di età è oggi coinvolto nella formazione permanente. È una vera miseria: basta ricordare – conclude il sindacalista Anief-Confedir – che in Spagna gli adulti che seguono un corso di studi per adulti sono il 10,7%”.

L’obbligo scolastico oggi nei vari paesi europei

 
Paese
Inizio obbligo
Fine obbligo
Durata obbligo
Austria
6
15
9
Belgio comunità fiamminga
6
18* Ultimi anni tempo parziale
12
Belgio comunità francese
6
18* Ultimi anni tempo parziale
12
Belgio comunità tedesca
6
18* Ultimi anni tempo parziale
12
Bulgaria
7
16
9
Cipro
5
15
10
Danimarca
6
16
10
Estonia
7
16
9
Finlandia
7
16
9
Francia
6
16
10
Galles
5
16
11
Germania
6
19*
13
Grecia
5
15
10
Inghilterra
5
16
11
Irlanda
6
16
10
Irlanda del Nord
4
16
12
Islanda
6
16
12
Italia
6
16
10
Lettonia
5
16
11
Liechtenstein
6
15
9
Lituania
7
16
9
Lussemburgo
4
15
11
Malta
5
16
11
Norvegia
6
16
10
Paesi Bassi
5
18
11
Polonia
6
18*
9
Portogallo
6
15
9
Repubblica Ceca
6
15
9
Romania
6
16
10
Scozia
5
16
11
Slovacchia
6
16
10
Slovenia
6
15
9
Spagna
6
16
10
Svezia
7
16
9
Turchia
6
14
8
Ungheria
5
18
13

 

Per approfondimenti:

Giovani: in 5 anni raddoppiati i disoccupati, senza una controriforma della scuola andrà sempre peggio

Obbligo scolastico, tendenza in Europa a prolungarlo. Italia, tra riforme e nuove proposte

Rapporto AlmaDiploma sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati di scuola secondaria superiore ad uno, tre e cinque anni dal diploma

 

A sostenerlo è l’Anief, intervenuto alla giornata di ascolto del mondo della Scuola promossa dal Pd a Roma: i livelli di apprendimento degli studenti non hanno avuto alcun beneficio dai tagli degli ultimi otto anni. Occorre quindi rimettere mano ad un nuovo corso, per recuperare il valore sociale dell’istituzione, valorizzare la professionalità dei suoi educatori, abbattere il tasso di dispersione scolastica, potenziare l’alfabetizzazione scolastica e universitaria, collegare la formazione al mondo del lavoro.

La politica del risparmio ad oltranza adottata negli ultimi otto anni nella scuola ha prodotto benefici economici limitati e un sensibile decremento nella qualità della formazione dei nostri alunni: per questo ‘la scuola deve ripartire’ il prima possibile. A sostenerlo è l’Anief, intervenendo oggi, 10 marzo, alla giornata di ascolto del mondo della Scuola promossa dal Partito Democratico presso la Sala delle Colonne a Roma.

Il sindacato sottolinea come la riduzione perpetrata negli ultimi otto anni di un sesto dell’orario settimanale scolastico e del personale, oltre che del 25% delle scuole autonome, non ha ridotto i livelli di dispersione scolastica o universitaria né ha potenziato i livelli di apprendimento degli studenti, a dispetto di insignificanti risparmi e addirittura di aumenti di spesa nella gestione dei supplenti (300 milioni di euro l’anno). Di contro, nello stesso periodo, è aumentato il numero dei Neet: giovani tra i 15 e 40 anni che né studiano né lavorano, concentrato specialmente nelle zone del Sud e delle Isole del Paese dove si concentra un depresso o inesistente tessuto economico (rapporto ABI-Censis), con stime che allontanano l’Italia dal raggiungimento degli obiettivi europei fissati per il 2020.

Pertanto, occorre attuare con urgenza una riforma che recuperi il valore sociale dell’istituzione, valorizzi la professionalità dei suoi educatori, abbatta il tasso di dispersione scolastica, potenzi l’alfabetizzazione scolastica e universitaria, colleghi la formazione al mondo del lavoro, sviluppi le potenzialità del territorio, assuma il ruolo di volano nell’economia del Paese.

“La parola d’ordine – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - è investire in termini di risorse, dopo un decennio di stasi, come avvenuto nei Paesi Ocde, al fine di liberare le energie e di attivare le sinergie necessarie in termini di organici, di programmi, di reclutamento che possano invertire il percorso appena tracciato”.

Sono diversi i punti presentati dall’Anief per rilanciare la scuola: ripristinare il tempo scuola esistente prima delle riforme Gelmini, riportare a 12mila il numero scuole autonome, riattivare il Fondo per il Miglioramento dell’offerta formativa senza i tagli draconiani dell’ultimo periodo, reintrodurre l’insegnante prevalente e specialista in lingua inglese nella primaria, ma anche istituire quello di attività motoria. Fondamentale è allungare l’obbligo scolastico a 18 anni, migliorare il collegamento della scuola con mondo del lavoro e università, riformare i centri dell’impiego e apprendistato, reintrodurre la figura del ricercatore a tempo indeterminato, adottare un piano sviluppo economico improntato attorno al patrimonio culturale.

A livello di personale scolastico, l’Anief ritiene impellente la necessità di una riforma dell’accesso e dell’uscita dalla professione che non può più tollerare la presenza di personale abilitato con TFA, PAS, idoneo al concorso in Italia o in Europa non inserito nei canali di reclutamento (GaE) o ancora di personale in servizio a tempo indeterminato che per il 60% è over 50, il doppio rispetto all’Ocse. Allo stesso modo non è più possibile prevedere l’assunzione di docenti e Ata che, dopo essere stati per tanto tempo discriminati rispetto alla direttiva 1999/70/CE, percepiscono per otto anni lo stesso stipendio, già del 4% inferiore all’inflazione certificata, e a fine carriera 8.000 euro in meno l’anno rispetto ai colleghi dei Paesi dell’Ocde.

L’Anief chiede quindi di rivedere l’assegnazione degli organici, facendo cadere le assegnazioni su parametri nazionali per fare spazio ad una armonica distribuzione in base alle esigenze del territorio (disoccupazione, dispersione, alloglotti). Il reclutamento dovrebbe poi avvenire su tutti posti vacanti e disponibili, eliminando le graduatorie provinciali per fare spazio ad una unica nazionale. Spazio anche a pensionamenti per gli over 60 o, per chi vuole rimanere, permettere loro di trasformare l’insegnamento in funzione tutoriali. E spazio anche alla formazione su lingue straniere e nuove tecnologie.

“Questi sono soltanto alcuni dei primi interventi che si rendono necessari, ma – continua Pacifico - che non possono essere svincolati da un’ulteriore riforma. Quella complessiva nazionale, che nell’affrontare il Job act ridefinisca il reclutamento per competenze e l’orientamento presso i centri per l’impiego, preveda l’adozione di un piano di sviluppo economico improntato intorno al patrimonio culturale e che abbia come corollario conseguente la riconversione del tessuto industriale, un diverso e pieno utilizzo dei fondi comunitari, la riscoperta della vocazione internazionale dell’Italia nel contesto mediterraneo, di ponte tra i mercati dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, di vettore nei legami d’Oltreoceano con le Americhe, di partner in Oriente”.

Per approfondimenti:

La scuola deve ripartire: intervento dell’Anief alla giornata di ascolto del mondo della Scuola promossa dal PD. Roma, 10 marzo 2014

 

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