Varie

Le province più a rischio dispersione sono Caltanissetta (con quasi il 42%), Palermo e Catania. Nella poco invidiabile “top ten” di allievi che lasciano dopo essersi iscritti al primo superiore anche Ragusa, Sassari, Cagliari e Oristano. Tuttoscuola: le Isole, rispetto a tutte le altre aree del Paese costituiscono il ‘ventre molle’ della situazione sugli studenti dispersi. Marcello Pacifico (Anief-Confedir): dobbiamo evitare che il gap aumenti, la scuola potrebbe fare molto. Occorrono però più risorse, un migliore orientamento, attuare l’obbligo formativo fino a 18 anni, una vera riforma dell’apprendistato, organici maggiorati per le aree a rischio e investimenti strutturali mirati.

Se in questi giorni mezzo milione di studenti sta concludendo la maturità, ve ne sono altri 167mila di cui la scuola italiana ha perso le tracce: cinque anni fa si sono iscritti ad un corso di studi superiore, ma poi hanno abbandonato i banchi. E solo 40mila hanno continuato gli studi fuori dalla scuola statale o hanno trovato lavoro. La percentuale di gran lunga maggiore di questi ragazzi, senza diploma e con un futuro a rischio, risiede nelle Isole: nella “top ten” delle province per più alta dispersione di alunni, ai primi quattro posti ci sono località della Sicilia; ed alta è anche la rappresentanza della Sardegna con tre capoluoghi.

Se si confrontano i dati per provincia dell’anno scolastico 2013/14, a Caltanissetta hanno abbandonato rispetto agli iscritti del 2009-10 il 41,7% degli studenti, a Palermo il 40,1%, a Catania il 38,6% e a Prato il 38,5% (con il dato “falsato” dall’altissima presenza di alunni cinesi). Seguono Ragusa con il 37,1%, Sassari con il 36,7% e Cagliari con il 36,5%. Chiudono Asti, con il 36,3% di studenti che non arrivano al diploma di maturità, Napoli (36,1%) e Oristano (35,4%). E la graduatoria prosegue con un’altra città della Sardegna: Nuoro.

Le stime, fornite dalla rivista Tuttoscuola attraverso un ampio dossier, indicano che per le Isole maggiori italiane una situazione da allarme rosso. Al Nord-Est la media di abbandoni è del 24,5%, con quasi 23mila studenti dispersi nel corso del quinquennio 2009-10/2013-14, al Nord-Ovest si attesta al 29,1%, con oltre 39mila abbandoni nel corso dell’ultimo quinquennio, al Centro scende al 24,8%, con circa 28mila studenti che hanno lasciato prematuramente. Anche il Sud (grazie soprattutto a Molise e Basilicata) riesce ad essere in linea con le altre Regioni, con 47.674 studenti persi (tasso medio di dispersione del 27,5%).

Nelle Isole, invece, le percentuali assumono proporzioni preoccupanti: la regione italiana che nel quinquennio 2009/2014 ha in assoluto perso più studenti della scuola secondaria superiore è stata la Sardegna: 6.903 allievi pari al 36,2%. Al secondo posto, in rapporto al numero di iscritti, c’è la Sicilia, con 22.054 studenti non arrivati al diploma (35,2%). Segue la Campania, dove nello stesso periodo hanno lasciato i banchi di scuola 24.262 iscritti, pari al 31,6%. “Le Isole, rispetto a tutte le altre aree del Paese, - spiega Tuttoscuola - costituiscono il ‘ventre molle’ della situazione sugli studenti dispersi”.

A fronte di questi dati, Anief ritiene che sia indispensabile adottare una serie di interventi urgenti per evitare che il gap rispetto ad alcune aree del Paese divenga insopportabile: bisogna prima di tutto tornare ad investire sull’istruzione, incrementando la spesa complessiva rispetto al Pil; attuare una riforma dei cicli, anticipando l’avvio della primaria, quando gli alunni hanno ancora 5 anni anziché 6, ed estendendo l’obbligo scolastico dagli attuali 16 fino ai 18 anni di età. Ma servono anche investimenti strutturali mirati: basta ricordare quanto è accaduto in Sicilia nel 2012, dove la mancanza di risorse e di mense scolastiche ha fatto sì che il tempo pieno nella scuola primaria è stato attivato solo per il 3% degli alunni. Mentre in Lombardia era presente nel 90% delle scuole primarie.

“Il nostro sindacato – dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – ha denunciato da tempo la necessità di stanziare una quantità di fondi maggiore per l’orientamento scolastico, la cui mancata efficacia è alla base dell’alto numero di abbandoni scolastici. Per risollevare il Meridione, in particolare le Isole, servirebbero degli organici di personale scolastico maggiorati: il calo demografico degli ultimi anni, invece, ha determinato il processo inverso”.

I dati parlano da soli: nel quinquennio 2007-2012 le amministrazioni comunali del Sud hanno riservato all'istruzione meno risorse (-13%), mentre per gli stessi capitoli di spesa i Comuni delle Regioni centrali e del Nord hanno rispettivamente la spesa del 4% e dell’8%. Abbiamo poi assistito alla riduzione di insegnanti che operano nelle stesse aree del Paese: per il prossimo anno scolastico, infatti, il Miur ha previsto la cancellazione di 14 cattedre in Abruzzo, 58 in Basilicata, 183 in Calabria, 387 in Campania, 33 in Molise, 340 in Puglia, 27 in Sardegna. La riduzione non risparmia l’area dell’handicap: negli ultimi anni il numero di docenti di sostegno che operano nel Meridione si è ridotto sensibilmente, con la sparizione di oltre 4mila posti di cui 2.275 solo in Sicilia e 900 in Campania.

È inevitabile, stando così le cose, che chi è più indietro si attarderà sempre più: anche le ultime le ultime ricerche nazionali indicano che la scuola non funge più da ascensore sociale, come indicato anche nella nostra Costituzione: oggi un figlio di una famiglia di operai è dieci volte più facile che abbandoni la scuola prematuramente rispetto al figlio di laureati.

“Per superare questa ingiustizia – continua Pacifico – la scuola potrebbe fare molto: servirebbe, ad esempio, attuare una vera riforma dell’apprendistato. Che abbia un’impronta diversa da quella varata di recente, puntando al potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro, che dovrebbe diventare programma formativo in tutte le classi del triennio finale delle scuole superiori italiane. Ma bisognerebbe anche rendere stabile il rapporto della scuola con il mondo del lavoro. Per realizzare quello che in altri Paesi, come la Germania, è già prassi: fornire ai nostri giovani quelle competenze minime professionali che le aziende richiedono quando assumono un giovane. Il ‘cerchio’ si chiuderebbe creando anche dei centri dell’impiego finalmente in grado di intercettare le richieste del mercato del lavoro. E di comunicare – conclude il sindacalista Anief-Confedir - i dati direttamente ai centri formativi”.

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Studio nazionale: l'abbandono scolastico tra i figli dei laureati è un fenomeno marginale (riguarda solo il 2,9%), ma sale al 7,8% tra i figli dei diplomati, e interessa quasi uno studente su tre (il 27,7%) se i genitori hanno frequentato solo la scuola dell'obbligo. La crisi ha poi aumentato il fenomeno dei Neet, soprattutto al Sud. Sempre meno immatricolati all’Università. Raddoppiato il numero di giovani che studiano all’estero.

Anief-Confedir: bisogna tornare ad investire sull’istruzione, anticipare la primaria a 5 anni, estendere l’obbligo scolastico a 18 anni di età, stanziare fondi ad hoc per l’orientamento scolastico, più alternanza scuola-lavoro nel triennio finale di tutte le scuole superiori, introdurre un organico maggiorato, di docenti e personale Ata, nelle zone a maggiore rischio dispersione, iniziando da Sud e Isole.

In Italia nell’ultimo triennio la crisi economica ha provocato una maggiore disuguaglianza sociale e territoriale, con l’andamento scolastico che costituisce l’esempio calzante dell’allargamento del gap. A sostenerlo sono due studi nazionali, presentati oggi, che confermano come il sistema educativo stia perdendo la tradizionale capacità di garantire opportunità occupazionali e di agire come strumento di ascensione sociale.

Dal "Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes 2014)", realizzato dal Cnel e dall'Istat, è emerso che "come durante tutto il periodo di crisi, continua ad aumentare in misura preoccupante la quota di ragazzi che non studiano e non lavorano, soprattutto nel Sud, dove in molte regioni oltre un terzo dei giovani si trova in questa situazione": nel 2013 la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano (Neet) ha avuto un aumento ancora più consistente del recente passato raggiungendo il 26%, più di 6 punti percentuali al di sopra del periodo pre-crisi.

Sempre più marcato appare lo svantaggio delle regioni del Sud e delle Isole rispetto ai diversi livelli di competenza, sia alfabetica sia numerica e informatica e i dati dell'Ocse tracciano un quadro allarmante indicando che solo un terzo degli italiani tra i 16 e i 65 anni raggiunge un livello accettabile di competenza alfabetica mentre un altro terzo è ad un livello così basso che non è in grado di sintetizzare un'informazione scritta. Pertanto, secondo il rapporto Cnel-Istat, diventa sempre più "necessario attivare programmi adeguati mirati alla riduzione delle disuguaglianze sociali, territoriali e di genere tra i giovani e di investire in formazione degli adulti per diminuire gli enormi divari generazionali nei livelli di competenze alfabetiche, numeriche e informatiche".

Preoccupanti sono i dati emessi, sempre oggi, dal Censis. Dallo studio si evince che la scuola non riesce a svolgere la funzione di riequilibrio sociale per i ragazzi provenienti da famiglie svantaggiate: l'abbandono scolastico tra i figli dei laureati è un fenomeno marginale (riguarda solo il 2,9%), ma sale al 7,8% tra i figli dei diplomati, e interessa quasi uno studente su tre (il 27,7%) se i genitori hanno frequentato solo la scuola dell'obbligo.

Inoltre, dice sempre il Censis la sfiducia di fondo favorisce gli abbandoni scolastici : risulta "disperso" nell'arco di un quinquennio il 27,9% degli studenti, pari a circa 164mila giovani. Complessivamente, si può stimare che la scuola statale ha perso nel giro di 15 anni circa 2,8 milioni di giovani: di questi appena 700mila hanno poi proseguito gli studi nella scuola non statale o nella formazione professionale, oppure hanno trovato un lavoro. Va male anche l'esito universitario: tra i 30-34enni, gli italiani laureati sono il 20,3% contro una media europea del 34,6%. E l'andamento delle immatricolazioni mostra un significativo calo negli ultimi anni. Chi può va a studiare all'estero: tra il 2007 e il 2011 il numero di studenti italiani iscritti in università straniere è aumentato del 51,2%, passando da 41.394 a 62.580.

Anief ritiene questi dati una conferma di quanto espresso da tempo: bisogna tornare ad investire sull’istruzione, incrementando la spesa complessiva rispetto al Pil; va attuata una riforma dei cicli, anticipando la primaria, quando gli alunni hanno ancora 5 anni anziché 6, ed estendendo l’obbligo scolastico dagli attuali 16 fino ai 18 anni di età; occorre stanziare fondi maggiorati per l’orientamento scolastico, attuare una vera riforma dell’apprendistato puntando sull’alternanza scuola-lavoro nel triennio finale di tutte le scuole superiori; occorre poi introdurre un organico maggiorato, di docenti e personale Ata, nelle zone a maggiore rischio dispersione, quindi iniziando dal Sud e dalle Isole.

“Un maggior collegamento con il mondo del lavoro – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è fondamentale per permettere ai nostri giovani di uscire dal sistema scolastico, come accade in altri paesi avanzati, basti pensare alla Germania, già forniti di competenze minime spendibili nelle aziende. Non occorre però pensare che tutti i problemi siano così risolti: bisogna anche rivedere i centri dell’impiego, creando delle strutture in grado di intercettare le richieste del mercato del lavoro. E di comunicare i dati direttamente ai centri di formazione: è un passaggio centrale per combattere l’aumento dei Neet. Si decida, infine, di creare da subito dei Centri di formazione per adulti che la legge vorrebbe già in funzione: Anief ha denunciato appena il 6,6% dei cittadini italiani tra i 25 ed i 64 anni di età è oggi coinvolto nella formazione permanente. In Spagna sono quasi il doppio”.

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Con oltre il 50% di over 50 e l'11,1% con più di 60 anni, l’Italia è il Paese Ocse con gli insegnanti più anziani. E quasi la metà dei presidi è over 60. Inoltre, il 18,5% dei docenti di scuola primaria e secondaria sono precari: la percentuale è la quarta più elevata tra i Paesi membri dell'organizzazione. Inoltre, l'88% percepisce “l'insegnamento scarsamente valorizzato nella società”.

Marcello Pacifico (Anief-Confedir): il vero dramma professionale è che se escludiamo gli aspiranti docenti che si trovano nelle GaE, oggi in Italia vi sono quasi mezzo milione di prof precari senza prospettive. Serve una norma che permetta a decine di migliaia di professionisti di fare quello per cui hanno studiato, sono stati selezionati e formati nelle nostre Università: soltanto in Italia si invecchia sognando un posto.

Il sondaggio Talis (Teaching and learning International Survey) condotto dall'Ocse in un totale di 24 Paesi, pubblicato oggi, conferma la necessità di rivedere con urgenza il sistema normativo che regola il reclutamento e il turn over scolastico italiano: il nostro è il Paese Ocse con gli insegnanti più anziani, con un'età media di 48,9 anni, oltre il 50% di over 50 e l'11,1% con più di 60 anni. La situazione è simile anche per i presidi: con 57 anni di età media, l'Italia è seconda solo alla Corea (58,8) e a pari merito con il Giappone. Oltre l'85% dei presidi italiani ha più di 50 anni, e il 46,5% ne ha più di 60.

Sempre i dati Ocse riferiscono che i presidi italiani ritengono che nella sua scuola ci sia una mancanza di risorse, materiali e umane, che ha un impatto negativo sull'insegnamento: il 58% dei dirigenti scolastici rileva una carenza nel numero di insegnanti di sostegno, e il 77,5% in quello del personale non docente. E sulla mancanza di risorse umane pesa anche l’altissimo il numero di insegnanti assunti a termine: il 18,5% dei docenti di scuola primaria e secondaria sono precari, con contratti a tempo determinato da un anno scolastico o meno. La percentuale è la quarta più elevata tra i Paesi membri dell'organizzazione, dopo Romania (25%), Cipro (20,1%) e Finlandia (19,2%), e a pari con il Cile.

Inoltre, per il 56,4% dei docenti il materiale pedagogico è insufficiente o inappropriato, per il 56% computer per allievi e professori sono insufficienti, per il 47,4% la disponibilità di connessione Internet è inadeguata e per il 43,6% le risorse bibliotecarie sono carenti. In questo quadro di scarsità di risorse - umane, strumentali, finanziarie -  e di trattenimento in servizio oltre ogni logica, visto che l’insegnamento è una professione iper-logorante, la maggior parte degli insegnanti italiani si dice comunque “soddisfatta”. Anche se poi dallo stesso sondaggio internazionale emerge che l'88% percepisce “l'insegnamento scarsamente valorizzato nella società”.

Alla luce di questi dati internazionali, inequivocabili perché super partes, Anief ritiene che il Governo italiano debba prendere atto della necessità di attuare un grande piano di assorbimento del precariato: stiamo parlando, come rilevato pochi giorni fa dalla stampa nazionale, di 155mila insegnanti iscritti nelle graduatorie ad esaurimento, 130mila abilitati iscritti nella seconda fascia delle graduatorie d’istituto e di almeno altri 340mila inseriti nella terza fascia. Per un totale che supera le 620mila unità: praticamente quattro volte i precari di tutte le altre pubbliche amministrazioni messe assieme.

“Ma il vero dramma professionale – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – è che se escludiamo gli aspiranti docenti che si trovano nelle GaE, oggi in Italia vi sono quasi mezzo milione di prof precari senza prospettive. Solo una minima parte di loro, qualche migliaio, riuscirà infatti a vincere il concorso che dovrebbe portare, il condizionale è d’obbligo vista l’ultima esperienza, direttamente al ruolo. In tanti si abilitano: il problema è che i corsi abilitanti – Tfa, Pas, Scienze della formazione e altri – non permettono di inserirsi nel doppio canale di reclutamento che permetterebbe di insegnare con continuità e col tempo aspirare all’assunzione in ruolo. E questo perché il legislatore che ha previsto una nuova formazione iniziale su un numero programmato di posti disponibili per garantire l’accesso alla professione ai giovani insegnanti ma non la gestione del loro reclutamento”.

Malgrado ciò, l’insegnamento in Italia rimane un lavoro ambito: è notizia di questi giorni che ben 147mila laureati hanno presentato domanda di accesso al secondo ciclo dei Tirocini formativi attivi. Che però, per quello che valgono oggi, non portano all’immissione in ruolo. “Per questo – continua Pacifico – chiediamo una norma che permetta a decine di migliaia di professionisti di fare quello per cui hanno studiato, sono stati selezionati e formati nelle nostre Università: insegnare. È irragionevole tenere fuori dal sistema delle graduatorie il personale abilitato, anche quando le graduatorie di quella classe concorsuale sono esaurite. Soltanto in Italia si invecchia sognando un posto da insegnante che ormai arriva in media, come ci hanno confermato oggi i dati Ocse, dopo i 40 anni”.

È evidente che il Miur continua a far funzionare le scuole italiane continuando ad abusare dell’utilizzo di contratti a termine. Anziché allinearsi all’Europa, dove dopo 36 mesi di servizio precario anche non continuativo si viene assunti, nelle scorse settimane l’amministrazione ha ufficializzato che nel prossimo triennio assumerà appena la metà dei posti oggi vacanti: 63mila immissioni in ruolo nel periodo 2014/2017, a fronte però di 125mila posti vacanti e disponibili. E ciò non porta nemmeno vantaggi all’erario: perché la Ragioneria dello Stato ha comunicato che ogni anni si spendono ben 800 milioni di euro per tenere in piedi il precariato della scuola.

“La verità - conclude Pacifico – è che da decenni il numero dei docenti precari della scuola italiana, utilizzati per l’ordinario funzionamento, è attestato tra il 15% ed il 20% di quello totale. E questa percentuale ha resistito pure al taglio dei 200mila posti, considerando anche gli Ata, negli ultimi sei anni per effetti dei piani di razionalizzazione introdotte con le leggi 244/2007, 133/2008,  111/11 e 135/12. Non dobbiamo meravigliarci se poi oggi l’Ocse ci dice che in Finlandia, nei Paesi Bassi, Singapore e in Canada una percentuale tra il 40 e il 68% dei docenti sente che l'insegnamento adeguatamente valorizzato. E se in Italia, invece, solo un docente su dieci la pensa allo stesso modo”.

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L’emergenza deriva dal taglio nazionale di 1.400 docenti, a fronte di 34mila iscritti in più nelle nostre scuole. In Senato già avviata un’interrogazione urgente al ministro dell’Istruzione. Anief: gli allievi non possono essere ammassati per rispettare i calcoli ragionieristici dello Stato, in questo modo si nega il loro diritto allo studio, perché sopra ai 30 alunni per classe, per un insegnante è impossibile fare lezione. E, nel contempo, si violano le norme sulla sicurezza. Il Governo affronti subito la questione.

Il prossimo anno scolastico si preannuncia all’insegna dell’emergenza classi “pollaio”: a seguito del taglio effettuato dal Miur di 1.400 cattedre, pur in presenza di 34mila alunni in più, dalle Regioni stanno pervenendo dati allarmanti sulla costituzione di organici ridotti all’osso e di classi con numeri di studenti ben al di sopra dei parametri previsti dalla legge per garantire il diritto alla studio e la sicurezza negli ambienti pubblici.

Una delle situazioni più difficili si sta registrando in Piemonte: a Casale Monferrato, il dirigente del liceo scientifico Cesare Balbo ha denunciato la formazione di una classe da 42 alunni; la senatrice Nicoletta Favero (Pd), ha immediatamente presentato un'interrogazione urgente rivolta al Ministro dell’Istruzione, perché la a Biella “si rischiano, nel prossimo anno scolastico, classi da 45 alle superiori”; Silvia Chimienti, deputata M5S, parla di “tagli indecenti”, per il taglio “di 100 classi in organico di diritto e di 180 docenti, a fronte di un aumento di 2.500 studenti iscritti alle scuole superiori rispetto allo scorso anno nella sola provincia di Torino”.

“Non era mai accaduto che nella Regione si verificasse una situazione di questo genere – spiega Giuseppe Faraci, responsabile Anief Piemonte - : tutto nasce dei vincoli imposti dalle ultime Leggi di Stabilità e dalla spending review, che impongono a tutte le amministrazioni pubbliche di non incrementare i parametri di spesa. Ma nella scuola ci sono dei bambini e dei ragazzi che non possono essere ammassati per rispettare i calcoli ragionieristici dello Stato: in questo modo, si nega il loro diritto allo studio, perché sopra ai 30 alunni per classe, per un insegnante è impossibile fare lezione. E, nel contempo, si violano le norme sulla sicurezza che impongono non più di 25 alunni per classe”.

La situazione sta peggiorando di anno in anno, perché quella non adeguare il numero degli insegnanti alle necessità è una tendenza che va avanti da almeno un triennio: a fronte di 87mila alunni in più iscritti nelle scuole pubbliche, rispetto al 2012 il Miur ha imposto agli Uffici scolastici regionali una consistenza di organici, anche del personale non docente, praticamente immutata. In certi casi, come è accaduto in questi giorni, si è arrivati a ridurre il numero dei docenti e Ata. Con il risultato che le scuole dovranno occuparsi della crescita formativa dei loro alunni con migliaia di unità in meno.

“L’amministrazione scolastica – dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – ha promesso che la situazione dovrebbe tornare nella normalità con l’assegnazione del cosiddetto organico di fatto: il contingente aggiuntivo di docenti che tiene conto delle situazioni più difficili. Premesso che negli anni passati non sempre si sono risolte tutte le situazioni, tanto è vero che non sono stati pochi i casi classi ‘pollaio’, pure con 42 alunni, anche ad anno scolastico ampiamente iniziato, ci chiediamo per quale motivo si continui ad affrontare le emergenze non nei tempi dovuti: il Governo ha detto che la sicurezza scolastica è una delle priorità della sua azione? Allora lo dimostri affiancando al risanamento dell’edilizia uno stanziamento di fondi che scongiuri da subito la formazioni di classi enormi come quelle denunciate in questi giorni in Piemonte”.

Anief chiede inoltre alle scuole di non subire passivamente queste decisioni: i dirigenti scolastici e le RSU denuncino con celerità agli Ambiti territoriali, all’Usr, al Miur stesso, ma anche alle Asl e agli Enti locali, tutti i casi in cui si superino i limiti numerici di alunni imposti dalla Legge, che a seguito degli incrementi approvati durante la gestione Gelmini sono già altissimi: nella scuola d’infanzia si è passati da 28 a 29 alunni per classe, alla primaria da 25 a 28 ed alle superiori si sono concesse deroghe fino alla presenza di 33 alunni.

Rispetto alle norme sulla sicurezza, già queste concentrazioni di allievi per classe sarebbe fuori norma. Come indicato nello schema di risoluzione presentato alcuni mesi fa dal senatore Fabrizio Bocchino e approvato dalla VII Commissione Cultura della Camera, per superare il sovraffollamento delle classi, a norma di legge “in aula non possono essere presenti più di 26 persone, compresi gli insegnanti o l'eventuale ulteriore personale a qualunque titolo presente”. Ed in presenza di alunni disabili, “il numero complessivo dovrebbe essere al massimo di 20, in modo da facilitare i processi di integrazione e d'inclusività”.

Pertanto, Anief chiede pubblicamente al Governo e al Partito Democratico – che da mesi sta incontrando alunni, docenti, Ata e dirigenti scolastici - di affrontare subito l’emergenza crescente delle classi “pollaio”: se si vuole cambiare rotta, come più volte annunciato, si inizi mettendo i nostri alunni ed il personale nelle condizioni di vivere la scuola in modo sicuro. E di attuare una didattica proficua. Cambiare “verso” al Paese vuol dire anche e soprattutto questo.

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Il Ministero dell'Istruzione ha comunicato che a partire da settembre 2014 non ci sarà l'incremento richiesto da sindacati e Regioni. Eppure gli iscritti rispetto a tre anni fa sono cresciuti di 87mila unità. Marcello Pacifico (Anief-Confedir): ci aspettavamo l'opposto, anche in virtù del ricambio generazionale previsto dalla riforma della PA approvata venerdì scorso dal CdM e delle richieste di aumento di organici avanzate dalle Regioni. Invece è arrivata questa 'doccia fredda' che si commenta da sola.

Anche se la popolazione scolastica italiana aumenterà di circa 34mila alunni, il Miur ha comunicato ai sindacati che il prossimo anno scolastico avremo quasi 1.400 insegnanti in meno. È una realtà dura da accettare, peggiore di quella denunciata dall'Anief a partire dallo scorso mese di marzo. Rispetto a quanto avevamo preventivato, infatti, la quantità del corpo insegnante verrà ritoccata. Ma anziché in positivo, di alcune migliaia di unità, come la logica avrebbe voluto per sopperire all'aumento consistente di alunni, siamo qui a commentare il suo ridimensionamento.

"Si tratta di un controsenso che si commenta da solo - dice Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir -. Soprattutto perché il Governo aveva promesso un'inversione di tendenza, confermata negli ultimi giorni con la fine delle deroghe al mantenimento in servizio oltre l'età per andare in pensione. Questo provvedimento, infatti, permetterà di agevolare quel ricambio generazionale indispensabile per rilanciare l'offerta dei nostri servizi pubblici, oltre che a ridurre l'età anagrafica media dei dipendenti della PA ormai ampiamente sopra i 50 anni. E nella scuola potrebbe anche permettere di risolvere, una volta per tutte, la questione dei Quota 96, rimasti in servizio per un dimenticanza nella riforma pensionistica Monti-Fornero. Ma ora arriva questa 'doccia fredda' che non ci voleva proprio".

A rendere ancora più paradossale la decisione di ridurre gli insegnanti è anche l'incremento sul lungo termine: la quantità complessiva di iscritti in più nel scuole pubbliche degli ultimi tre anni supera infatti quota 87mila. Tanto è vero che anche le Regioni, l'ultima è stata il Piemonte, stanno in questi giorni chiedendo al Ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, di incrementare il numero di docenti perché "la riduzione degli organici per le scuole superiori e serali, se confermata risulterebbe insostenibile per il sistema scolastico regionale".

"Il problema del sottodimensionamento degli organici dei docenti - continua Pacifico - attraversa tutte le aree del Paese, al Nord come al Centro, al Sud e nelle Isole. Va ricordato, infatti, che anche se negli ultimi anni il saldo demografico del Meridione è in negativo, la quantità di giovani che in queste zone lasciano i banchi prima del tempo e vanno ad ingrossare la categoria dei Neet è altissima".

Solo per rimanere ai dati ufficiali sull'abbandono scolastico, i numeri ci dicono che rimane fermo al 24,8% in Sicilia e Sardegna, al 21,8% in Campania, al 19,7% in Puglia. La media nazionale di alunni che lasciano banchi e libri prima dei 16 anni è invece del 17,6%, mentre nell'Unione europea scende al 12,7%. È le indicazioni che arrivano da Bruxelles sono di arrivare al 10% entro il 2020. Il dislivello è evidente anche in altri contesti scolastici, ad iniziare da quelli della prima infanzia: solo il 2,5% dei bambini fino a 3 anni fruisce di un nido in Calabria, mentre in Emilia Romagna sono il 26,5% e in Europa uno su tre. Per i Neet, invece, ci sono realtà territoriali che indicano in questa indicano in questa condizione di non studio-lavoro un giovane su due.

"In queste condizioni è evidente che occorre istituire, se si vuole invertire il trend, degli organici differenziati, con maggiorazioni previste proprio laddove le scuole sono più a rischio dispersione di alunni. Se si vuole veramente far diventare la scuola il volano per rilanciare il Paese - conclude il sindacalista Anief-Confedir - non ci sono altre possibilità".

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