Università

Sono allarmanti i dati provenienti da una ricerca attuata da Palazzo Koch e dal consorzio Almalaurea: i nostri giovani laureati trovano difficoltà a trovare un impiego e chi c’è l’ha è pagato poco (mille euro al mese) e sempre più spesso in ‘nero’. Per il sindacato occorrono risorse vive per rilanciare formazione e lavoro, Solo così si può sovvertire una situazione drammatica derivante dalla crisi economica e lavorativa. I numeri parlano chiaro: in un solo anno perse 10mila immatricolazioni accademiche, tra gli immatricolati gli abbandoni sfiorano il 20 per cento, quasi 60mila unità l’anno, e il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue, oltre 15 punti percentuali sotto la media.

“Se non si inverte la rotta, tornando ad investire sulla conoscenza, rischiamo di svuotare le università”. A sostenerlo è Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, a seguito dell’allarme lanciato dal Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, sullo scarso rendimento in termini di redditi lordi dei lavoratori italiani laureati rispetto a quelli dei grandi Paesi europei (-15 punti). Ma anche dal consorzio Almalaurea, che nelle stesse ore ha messo in evidenza le difficoltà crescenti dei laureati nel trovare un impiego (negli ultimi cinque anni ad un anno dal titolo si è passati dal 10% al 26,5% di neo-dottori disoccupati), l’aumento del lavoro nero intellettuale (schizzato al 13% tra i laureati a ciclo unico) e gli stipendi ‘da fame’ (attorno ai mille euro) che sono costretti ad accettare sempre più giovani che concludono gli studi accademici.

Il calo di interesse che si sta manifestando per l’Università italiana è sempre più evidente. A tutti i livelli. In entrata, perché le immatricolazioni negli ultimi 10 anni si sono ridotte del 20,6%: ormai vi si iscrive appena il 30% dei diplomati. In itinere, visto che il dato nazionale di giovani che lascia nel corso del primo anno, dopo l’iscrizione, sfiora le 60mila unità: è come se ogni anno scomparisse un ateneo della grandezza dell’Università Statale di Milano.

Ma anche in uscita, come ravvisato in queste ore, la situazione sta precipitando. Con la crisi economica e lavorativa che sta producendo effetti devastanti sulla spendibilità della laurea: in Calabria i giovani tra i 24 e i 35 anni sono infatti 314 mila; in Puglia quasi 630 mila; in Campania poco meno di 920 mila; in Sicilia 775 mila. Sommati fanno oltre 2 milioni e mezzo. Calcolando una media, per queste quattro regioni, intorno al 16% di laureati in quella fascia d’età, si ha un raggruppamento di quasi 420 mila giovani calabresi, pugliesi, siciliani e campani. E poiché secondo l'Istat nel Mezzogiorno i 25-34enni laureati inattivi sono uno su tre, il 33,5%, rappresentano ben 140 mila i laureati che, solo al Sud, non lavorano. Viene da chiedersi cosa faranno, visto che lo stato delle aziende italiane è pessimo: nel biennio 2011-2012 ne sono state chiuse oltre 100mila.

E se i giovani non studiano e non lavorano è inevitabile che vadano a riempire la categoria dei Neet: nel 2012, ha rilevato il Cnel, sono arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni: il loro numero è “aumentato – conferma l’Istat – di 95 mila unità (4,4 per cento); dal 2008 l’incremento è stato del 21,1 per cento (+391mila giovani)”.

Non c’è da meravigliarsi se se nell'ultimo decennio gli under 35 che sono stati costretti a recarsi Oltralpe in cerca di un impiego sono più che raddoppiati, passando da 50 mila a 106 mila. E se nel 2012 l'incremento di coloro che hanno acquisito una residenza straniera (il 54,1% ha meno di 35 anni) ha toccato livelli record, facendo registrare un +28,8% rispetto al 2011. E non ci si può meravigliare nemmeno quando l’Istat ci dice che dal 1983 il numero di ultratrentenni che continuano a vivere con la famiglia di origine, quasi sempre con mamma e papà, è quasi triplicato.

E a fronte di tutto questo, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno saputo fare di meglio che tagliare. Anche nell’Università. Dove a seguito della Legge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita del ricercatore. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue, oltre 15 punti percentuali sotto la media europea. Ma nessuno tra chi gestisce le sorti del Paese ci fa caso, visto che (dati Ocse) l’Italia si piazza per investimenti nella scuola al 31° posto tra i 32 dell’area: solo il Giappone fa peggio.

“Alla luce dei dati negativi che si succedono, non dobbiamo sorprenderci – sostiene Marcello Pacifico – se poi l’Università viene snobbata dai nostri giovani. Come confermato, di recente, anche dall’Istat, che nell’ultima rilevazione nazionale ha ravvisato un calo di quasi 10mila immatricolazioni (il 3,3%). In un periodo difficile, dal punto di vista socio-economico, come quello che stiamo vivendo, permettere ad un giovane di frequentare gli studi universitari per molte famiglie italiane rappresenta un impegno gravoso. Che può essere affrontato solo laddove rappresenti un investimento sicuro, come lo è stato a partire dal dopoguerra sino alla fine degli anni Ottanta. Quando i corsi di studi erano gli stessi di oggi. E nessuno pensava, forse vaneggiando, che per innalzare il livello occupazionale – conclude il sindacalista Anief-Confedir – non bisognasse investire di più su formazione e apprendistato in azienda, ma eliminare il valore legale del titolo di studio”.

Per approfondimenti:

E li chiamano Neet: dossier Anief-Confedir sull’evoluzione del quadro formativo e occupazionale dell’ultimo decennio

 

Annullati il D.D.G. n. 58/2013 e il Regolamento n. 81/2013 che modifica il n. 249/2010 laddove esclude precari e docenti di ruolo con 540 o 360 giorni cumulati con o senza servizio specifico di 180 giorni. Per cinque mesi, il Tar ha respinto ben quattro volte le richieste di provvedimenti cautelari. Ora Anief ottiene dal Consiglio di Stato il disco verde per i primi trecento tra i tremila ricorrenti che attendevano di iscriversi con riserva ai corsi universitari abilitanti. I docenti esclusi, in totale, rappresentavano il 5% dei più di 60.000 candidati. Aggiornato con le ordinanze da scaricare.

Ricorsi frequenza PAS: Consiglio di Stato accoglie 4 appelli Anief. Ammessi gli esclusi alla vigilia dei corsi

Al Tar Lazio per chiedere la remissione alla Consulta del Regolamento che proroga il blocco degli stipendi anche per il 2014, vista la discussione prevista per il prossimo novembre.

Si ricorda, infatti, che la sentenza n. 223/12 ha già dichiarato illegittima la norma applicata alla magistratura e all’avvocatura dello Stato e che già sei Tar hanno rinviato la pregiudiziale alla Corte costituzionale. Scrivi entro il 15 settembre 2013 a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. per chiedere le istruzioni operative.

 

Allarmante rapporto Almalaurea sulla situazione occupazionale di chi conclude l’Università in Italia: ad un anno dal titolo l’89% opera in contesti privati o non profit. E a cinque anni dalla laurea due dipendenti pubblici su tre sono ancora precari. Anief-Confedir: uno spot al contrario, che danneggia l’interesse dei nostri giovani per lo studio post-diploma, conseguente anche al blocco del turn over nella PA e alla sparizione di 360mila posti in 10 anni. Eppure fra i giovani italiani di età 25-34 anni i laureati sono solo il 20%, contro la media dei paesi Ocse superiore al 35% e le indicazioni dell’Ue di arrivare in fretta al 40%.

Svanisce il sogno dell’italiano medio di studiare, terminare l’Università e diventare un dipendente pubblico: solo l’11% dei “dottori” con laurea specialistica, oltre il triennio, ad un anno dal conseguimento del titolo di studio lavorano nella pubblica amministrazione. A fronte dell’83,5% che operano nel privato, cui va aggiunto il restante 5,5% occupato nel non profit.

Vacilla anche il mito del posto fisso: sempre ad un anno dalla laurea, sono più i precari dello Stato (il 39%) rispetto a quelli che operano nel privato (il 28%). Un dato, quello della lunga precarietà cui sono condannati i nostri “colletti bianchi”, su cui pesano tanto le decine di migliaia di supplenti della scuola non immessi in ruolo malgrado la presenza di posti liberi e precise raccomandazioni Ue sulla stabilizzazione del personale che ha prestato servizio per oltre 36 mesi.

Ma non finisce qui. Perché a cinque anni dal termine degli studi accademici il gap tra privato e Stato diventa ancora maggiore: il lavoro stabile riguarda il 71% dei laureati occupati nel privato e appena il 34% dei colleghi del pubblico impiego. Inoltre, in entrambi i casi gli stipendi sono davvero miseri: in media attorno ai 1.200 euro lordi (con un +3% nel pubblico rispetto al privato).

Questi dati davvero sconfortanti, presentati da Almalaurea, hanno un doppio significato: innanzitutto che non bisogna più illudere i giovani, spiegandogli che lavorare nello Stato è un risultato raggiungibile da pochi eletti; in secondo luogo che la crisi economica, nazionale ed internazionale, complice l’inerzia dei Governi italiani, ha “svuotato le casse pubbliche”.

“Si tratta di dati lavorativamente drammatici – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – perché significa che i nostri governanti rinunciano alle alte professionalità. Facendo arretrare il Paese di centinaia di anni. Perché mentre al tempo di Federico II l’Università serviva per formare giustizieri e giudici del Regno delle due Sicilie, oggi lo Stato abbandona al loro destino i giovani che hanno puntato sull’alta formazione: invece di assumerli in base al merito, chiude la porta ai concorsi perché non c’è più posto. Anche perché negli ultimi 10 anni proprio nella pubblica amministrazione ne sono stati cancellati ben 360mila. E chi va in pensione, quando ci riesce, non viene più sostituito”.

Secondo Anief-Confedir, il rapporto Almalaurea sul futuro professionale dei nostri laureati rappresenta quindi un brutto spot per tenere lontani dagli atenei gli studenti diplomati. E che va a incidere su un quadro già a dir poco deprimente: gli ultimi dati ufficiali internazionali indicano, infatti, che fra i giovani italiani i laureati di età 25-34 anni sono appena sopra il 20%, contro la media dei paesi Ocse superiore al 35% (il 38 nel Regno Unito, il 41 in Francia, il 42 negli Stati Uniti, addirittura il 55 in Giappone).

Nella fascia di età 30-34 anni, strategica per realizzare la società della conoscenza e per competere a livello internazionale, il quadro non è molto diverso: la presenza di laureati in Italia non raggiunge il 20%. È tutto dire che l'obiettivo strategico che la Commissione Europea ha individuato come mèta da raggiungere entro il 2020 sia il 40% della popolazione di 30-34 anni laureata. Una soglia per noi quasi impossibile da centrare, almeno nel breve periodo, ma che hanno già incamerato metà dei paesi dell'UE.

“E in Italia che facciamo? Invece di incentivare le iscrizioni all’Università, attraverso una seria riforma – sostiene il sindacalista Anief-Confedir - riduciamo le quote di fondi ordinari rivolte agli atenei e diamo la possibilità ai senati accademici di alzare le tasse d’iscrizione. Ma non basta: ora si scopre anche che lo Stato assorbe solo in minima parte i giovani che si sono formati e specializzati ai massimi livelli”.

“Bisognerebbe allora chiedere al ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca – continua Pacifico – per quale motivo non avvii in fretta una seria riforma per valorizzare il titolo accademico, anziché tentare di abolirne il valore legale. Ai fini pure di una sua migliore spendibilità, a partire della pubblica amministrazione. La vediamo invece intenta a soffermarsi sul primato italiano della fuga dei cervelli italiani all’estero, la cui causa va collegata proprio alle scarse opportunità che il nostro paese offre ai suoi giovani. Opportunità che non hanno quelli particolarmente meritevoli, ma anche i tanti laureati che chiedono semplicemente un lavoro. Magari come impiegati pubblici”.

 

Anief lo aveva detto in tempi non sospetti: il modello voluto dall’ex ministro Profumo avrebbe comportato una chiara lesione ai diritti dei neo-diplomati. Il presidente Anief, Marcello Pacifico, indica la strada da percorrere: cancellare il decreto n. 21/2008, abolire il numero chiuso, potenziare l’orientamento, introdurre monitoraggi periodici, elevare l’obbligo formativo sino alla fine della scuola superiore.

Oggi le nuove modalità cervellotiche introdotte all’ultimo momento dall’ex ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per selezionare i candidati ai corsi universitari a numero chiuso sono state sapientemente stoppate dal nuovo ministro Maria Chiara Carrozza. La quale, oltre ad aver ristabilito le canoniche date di inizio settembre, sarebbe anche in procinto di firmare un nuovo decreto sulle modalità delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato nazionale per l’a.a. 2013/14.

Ancora una volta aveva ragione l’Anief, che in tempi non sospetti si era subito espressa contro “un’operazione destinata a realizzare l’obiettivo opposto a quel che ci chiede l’Unione Europea, ovvero elevare il prima possibile il numero di studenti che raggiungono un alto titolo di studio”.

Il giovane sindacato ritiene che con la decisione presa oggi dal ministro Carrozza, si evita finalmente di discriminare gli studenti dell’ultimo anno della scuola superiore: introdurre un test immediatamente dopo la conclusione degli Esami di Stato, senza permettere loro di prepararsi adeguatamente alla selezione, avrebbe rappresentato una chiara lesione al diritto allo studio costituzionalmente garantito.

“Se però ora il ministro vuole completare la sua lodevole iniziativa avviata oggi – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato Confedir per la scuola e i quadri – dovrebbe anche rivedere il decreto ‘madre’, il n. 21 del 2008, che ha introdotto il bonus da assegnare solo agli studenti che conseguono un elevato punteggio alla maturità: si tratta di un’operazione chiaramente discriminatoria perché non tiene conto delle particolarità dei vari corsi, oltre che del tessuto sociale e familiare dove sono collocati”.

“Per superare del tutto questa condizione, che ci continua a tenere lontani dai migliori modelli formativi terziari europei – conclude Pacifico – , Anief torna a chiedere l’abolizione del numero chiuso. E nel contempo l’avvio di veri percorsi di orientamento per tutte le classi terminali delle scuole superiori, affidandoli a studenti-senior e ricercatori esperti che operino come tutor, assieme a dei monitoraggi periodici per l’accesso ai corsi universitari”.

 

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