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E li chiamano Neet: dossier Anief-Confedir sull’evoluzione del quadro formativo e occupazionale dell’ultimo decennio

Analizzando una serie di studi, anche di portata internazionale, il sindacato dimostra che in Italia il mantenimento dell’alto tasso di abbandono scolastico, il boom della disoccupazione, la fuga all'estero dei nostri giovani e la caduta libera del potere d'acquisto degli stipendi hanno un denominatore unico: le riforme e i tagli draconiani attuati dagli ultimi Governi sulla pelle delle nuove generazioni.

Marcello Pacifico (presidente Anief e segretario organizzativo Confedir) si appella alle istituzioni: se si vuole arrestare l’ascesa di under 24 che abbandonano gli studi e non trovano lavoro, in particolare al Sud, il 2014 dovrà essere l’anno della controriforma della scuola, con investimenti consistenti nell’istruzione, nell’università e nella ricerca. Perché è ormai appurato che solo la crescita della scolarizzazione può ridurre il numero di giovani altrimenti condannati a vivere senza un progetto di vita.

Continua a preoccupare il numero di giovani tra i 15 e 24 anni che in Italia abbandona gli studi senza trovare lavoro: nelle ultime ore, il “Rapporto sulla coesione sociale 2013 di Istat, Inps e Ministero del Lavoro” ha confermato, dopo il Focus “La dispersione scolastica” realizzato dal Miur, che nel 2012 sono stati addirittura 758 mila i ragazzi che hanno conseguito un titolo di studio al massimo “ISCED 2” (scuola secondaria di primo grado) e che non partecipano ad alcuna attività di educazione/formazione. Si tratta di un numero altissimo, pari al 17,6% della relativa fascia di età: in Europa il tasso di abbandono non arriva al 14%, e rispetto alla nostra Penisola fanno peggio solo Spagna (24,8%) e Portogallo (20,8%).

Obiettivamente, in Italia rispetto al 2000, quando erano il 25,3%, i giovani ad abbandonare la scuola senza conseguire un titolo superiore alla licenza media sono diminuiti. Ma la Commissione europea ci dice che nel 2012 in Italia il tasso di abbandono scolastico ha continuato a rimanere alto, tanto da rendere ormai impossibile l’obiettivo del raggiungimento del 10% entro il 2020. E lasciando invece attivo il circuito esponenziale che unisce la dispersione scolastica con il fenomeno dei Neet (Not in education, employment or training) e, soprattutto al sud, della criminalità.

Rispetto alla media dei 28 Paesi dell’Ue, scesa al 12,7%, vi sono ancora cinque Paesi ancora molto lontani dalla meta. Tra questi figura proprio l’Italia, oggi al 17,6%, che per numero di 18-24enni che hanno lasciato gli studi prima del tempo è riuscita a fare peggio anche della Romania, che è al 17,4%. Mentre sono lontanissime la Germania (10,5%), la Francia (11,6%) e il Regno Unito (13,5%). Non può consolarci sapere, sempre dalla Commissione europea, che in Spagna gli early school leavers, sono il 24,9% dei ragazzi. E che anche Malta (22,6%) e il Portogallo (20,8%) sono degli esempi da evitare.

In Italia, la situazione è leggermente migliore al Centro-Nord, dove la dispersione si attesta al 16%. Mentre la percentuale di dispersione di studenti aumenta al Sud Italia, dove è al 22,3%: preoccupano Sicilia, Sardegna e Campania, dove vi sono aree con punte di abbandoni scolastici del 25%. Il rapporto “Bes”, il “Benessere equo sostenibile e sostenibile in Italia”, realizzato dal Cnel su dati Istat, ha recentemente rilevato che sulle competenze di base, in particolare in italiano, il punteggio degli istituti tecnici del Nord è migliore di quello dei licei dalla Campania in giù. In Calabria, Sicilia e Sardegna il livello funzionale si attesta tra 184 e 185 punti, laddove in Valle d’Aosta, provincia di Trento e Lombardia raggiunge i 214 punti. E anche per il livello di competenza numerica si notano evidenti differenze. I risultati peggiorano man mano che si procede da Nord a Sud, al punto che, in italiano, il punteggio degli istituti tecnici del Nord è migliore di quello dei licei del Mezzogiorno. E il periodo più a rischio abbandono rimane quello dei 15 anni, quando i ragazzi frequentano il biennio delle superiori.

La riforma Gelmini dell’Istruzione, accompagnata dalla Legge 133 del 2008 (che a compimento ha portato alla cancellazione di 200 mila posti tra docenti e Ata, alla soppressione di 4 mila istituti autonomi e al taglio al solo comparto Scuola di 8 miliardi di euro) non ha comportato alcun beneficio. Ma ha prodotto risultati nefasti sul fronte della didattica: riducendo di un sesto l’orario scolastico, tanto è vero che oggi l’Italia detiene il “primato” di far svolgere ai suoi alunni della primaria 4.455 ore studio, rispetto alle 4.717 dell’Ocse. E 2.970 in quella superiore di primo grado rispetto alle 3.034 sempre dell’Ocse.

Anche l’allontanamento degli italiani dalla lettura, rilevata in queste ore dall’Istat attraverso il rapporto “La produzione e la lettura di libri in Italia” non è casuale, ma figlio della politica di recessione verso la formazione delle nuove generazioni: secondo l’Istituto nazionale di statistica, infatti, i lettori in Italia sono calati passando dal 46% del 2012 al 43% del 2013. Con un riduzione di lettori che ha interessato principalmente la fascia di età maschile tra i 15 ed i 17 anni, scesa in un solo anno quasi di dieci punti: dal 48,9% al 39,4%.

“L’allontanamento dall’Europa in materia di dispersione scolastica – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir – non è un dato che ci sorprende. Ma è legato proprio ai tagli a risorse e organici della scuola attuati negli ultimi anni. Ora, siccome è scientificamente provato che i finanziamenti sono correlati al successo formativo, più si taglia e più la dispersione aumenta. Per cui, come rilevato di recente da Eurostat, anziché pensare agli altri è giunto il momento di tornare ad investire”. Il sindacalista Anief-Confedir indica anche dove: “nella formazione, puntando in particolare sull’apprendistato, nel tempo scuola, nelle professionalità e competenze. Cominciando, quindi, ad aumentare il tempo scuola e a creare degli organici potenziati per le aree a rischio e più difficili”.

Uno dei punti “dolenti” di questo stato di cose è anche quella della cattiva informazione. Con gli istituti ridotti allo stremo, tanto che alcuni dirigenti sono arrivati a chiedere ad ogni famiglia fino a 300 euro l’anno di contributi, è una conseguenza inevitabile che le scuole non possano organizzare un adeguato orientamento scolastico e universitario. Pure nel canale d’istruzione terziario, infatti, ci distinguiamo. E sempre in negativo. Il numero di giovani iscritti all’università che raggiunge la laurea è infatti il più basso di tutti. Tanto che l’Italia si posiziona, in alcune fasce d’età, oltre 15 punti percentuali sotto la media europea. I neo diplomati che si iscrivono ad un corso di laurea sono ormai solo il 30%: le immatricolazioni universitarie negli ultimi 10 anni si sono ridotte del 20,6%. Sempre a seguito della Legge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla progressiva perdita della figura ricercatore.

Anche a livello di laureati il quadro è drammatico: in Calabria i giovani tra i 24 e i 35 anni sono infatti 314 mila; in Puglia quasi 630 mila; in Campania poco meno di 920 mila; in Sicilia 775 mila. Sommati fanno oltre 2 milioni e mezzo. Calcolando una media, per queste quattro regioni, intorno al 16% di laureati in quella fascia di età, significa un sottogruppo di quasi 420 mila giovani laureati calabresi, pugliesi, siciliani e campani. E poiché secondo l'Istat nel Mezzogiorno i 25-34enni laureati inattivi sono uno su tre, il 33,5%, rappresentano ben 140 mila i laureati che, solo al Sud, non lavorano. Viene da chiedersi cosa faranno, visto che lo stato delle aziende italiane è pessimo: nel biennio 2011-2012 ne sono state chiuse oltre 100mila.

Quel che è sicuro è che nell’ultimo decennio è aumentato il numero di giovani italiani che non riescono a trovare lavoro: tanti rimangono a casa con i propri genitori. Ma in molti casi questo “ammortizzatore” comincia a non reggere più: tanti 50enni, in molti casi appartenenti a famiglie monoreddito, sono rimasti disoccupati. Con il conseguente allargamento del fenomeno dei “working poor”, cioè di chi percepisce retribuzioni sotto la soglia di povertà.

A fronte di una situazione lavorativa così dimessa, va ricordato che anche i redditi degli italiani si sono “asciugati”, tornando ai livelli del 1986: se nel 2007, anno di avvio della crisi economica, lo stipendio medio era di 19.515 euro, oggi siamo scesi a 16.955 euro. In termine mensili, ci ha detto l’Istat, “l’anno scorso, la retribuzione mensile netta è stata di 1.304 euro per i lavoratori italiani e di 968 euro per gli stranieri. Rispetto al 2011, il salario netto mensile è rimasto quasi stabile per gli italiani (4 euro in più)”. E gli stipendi degli insegnanti risultano tra i più bassi: con 32.658 dollari l’anno nel 2010 nella scuola primaria (contro i 37.600 della media Ocse), 35.600 dollari nella scuola media (39.400 Ocse) e 36.600 nella secondaria superiore contro 41.182 dell’area Ocse. Inoltre, sempre in Italia la spesa per l’Istruzione rimane davvero misera. Tanto che (dati Ocse) il nostro Paese si piazza per investimenti nella scuola al 31° posto tra i 32 considerati. Solo il Giappone fa peggio.

E tutto questo avviene proprio mentre crolla il potere d'acquisto delle famiglie: secondo l'Inps nel 2012, anno ‘tra i più critici’ per l'economia e la società italiana, i redditi delle famiglie ne hanno risentito in ‘maniera rilevante’. Si sono infatti ridotti del 2% in termini monetari, ma in termini di potere d'acquisto la caduta è stata di ben 4,9 punti, il picco più alto dall'inizio delle crisi”. L’Istat, inoltre, proprio in questi giorni ci ha detto che dal 2005 i poveri sono raddoppiati.

Non bisogna allora meravigliarsi se nell'ultimo decennio gli under 35 che sono stati costretti a recarsi Oltralpe in cerca di un impiego sono più che raddoppiati, passando da 50 mila a 106 mila. E se nel 2012 l'incremento di coloro che hanno acquisito una residenza straniera (il 54,1% ha meno di 35 anni) ha toccato livelli record, facendo registrare un +28,8% rispetto al 2011. E non ci si può meravigliare nemmeno quando l’Istat ci dice che dal 1983 il numero di ultratrentenni che continuano a vivere con la famiglia di origine, quasi sempre con mamma e papà, è quasi triplicato.

I dati di arretramento sono tanti e diversificati. Sempre nel 2012 si è ridotta, dal 79,9% al 76,2% anche la percentuale di diplomati tra i giovani di 19 anni. E nel 2012 sono stati il 37,8% i giovani 18-24enni che hanno conseguito al massimo la licenza media e non hanno, nel contempo, seguito alcun corso di formazione. Fra questi, quasi uno su quattro stava cercando attivamente un lavoro mentre il 38,5% risultava inattivo. Nel Mezzogiorno si è rassegnato addirittura il 49,1%.

Ora, se si esamina il tasso di occupazione giovanile si scopre che negli ultimi cinque anni ha perso 5,8 punti percentuali, passando dal 24,4 al 18,6%. Sempre nell’ultimo quinquennio (dati Istat) il numero di coloro che cercano lavoro è raddoppiato: il tasso di disoccupazione è passato dal 6,5% del dicembre 2007 all’11,2% del dicembre 2012. In termini pratici, le persone in cerca di occupazione sono aumentate di 1,3 milioni: da 1,6 milioni a 2,9 milioni. Ed è sempre la realtà giovanile ad essere più in difficoltà: l’Istat ci dice che il tasso di disoccupazione dei 18-29enni, dopo una costante discesa tra il 2000 e il 2007, ha avuto un'impennata nel corso degli ultimi quattro anni raggiungendo, nel 2011, il 20,2%, un punto percentuale al di sotto del picco che si registrò nel 1997. Nello stesso 2011, il tasso di occupazione dei 18-29enni è sceso al 41%, dopo aver toccato il valore massimo del 53,7% nel 2002.

E se i giovani non studiano e non lavorano è inevitabile che vadano a riempire la categoria dei Neet: nel 2012, ha rilevato il Cnel, sono arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni: il loro numero è “aumentato – conferma l’Istat - di 95 mila unità (4,4 per cento); dal 2008 l’incremento è stato del 21,1 per cento (+391mila giovani)”. È un andamento di cui, obiettivamente, occorre preoccuparsi. Perché non solo è crescente, ma nello stesso periodo i giovani disoccupati e non in formazione olandesi erano meno del 5%. I tedeschi solo l'8%. Molti meno Neet che in Italia figuravano anche in Polonia, Belgio, Malta e Cipro (circa l’11%). Anche livello di area Ocse siamo messi male: solo Grecia e Turchia hanno una quota di Neet più elevata dell’Italia.

È significativo che nel 2010, a livello europeo, il 39% dei Neet tra i 25 e i 29 anni aveva un basso livello di istruzione (licenza media), il 44% una formazione di secondo livello (diploma di maturità), e solo il 17% una formazione di livello terziario (laurea). Un dato che conferma, se ve ne era ancora bisogno, che il livello formativo conseguito incide pesantemente sull’occupazione dei giovani.

Nel nostro Paese, quindi, i giovani rappresentano la categoria della popolazione più penalizzata dal deterioramento del mercato del lavoro. Soprattutto dopo che è cresciuta la partecipazione occupazionale degli over 55: sempre nel 2012 i lavoratori delle classi più anziane (55-64 anni) sono risultati quasi 277 mila in più rispetto al 2011, dei quali la maggior parte occupati (+ 6,8% rispetto al 2011): “il minor numero di persone che escono dal mercato del lavoro - ha spiegato il Cnel - riduce la domanda sostitutiva, di rimpiazzo delle persone che vanno in pensione, soprattutto per effetto delle riforme pensionistiche”. Quelle che nella scuola hanno portato il corpo docente italiano ad essere il più vecchio al mondo. E che con l’approvazione della riforma Fornero peggiorerà ulteriormente le cose.

Concludiamo la nostra analisi riportando alcuni passaggi del Rapporto annuale Istat 2013: “Non solo l’occupazione si riduce, più di sette punti in quattro anni, ma anche l’investimento in capitale umano non cresce. Di conseguenza la quota di Neet, cioè di giovani che non lavorano e non studiano, è aumentata in misura maggiore degli altri paesi europei. In Italia, per giunta, la condizione di Neet è, rispetto agli altri paesi, meno legata alla condizione di disoccupato e più al fenomeno dello scoraggiamento: sono di meno quelli che cercano attivamente lavoro e molti di più quelli che rientrano nelle forze di lavoro potenziali. Nel nostro Paese il rendimento dell’investimento in istruzione risulta ancora basso, nonostante che la laurea molto più del diploma stia costituendo una forma di assicurazione contro le crescenti difficoltà del mercato del lavoro”. Si tratta di conclusioni super partes che parlano da sole. E che consigliamo i nostri governanti di leggere attentamente.

Evoluzione del quadro formativo e occupazionale dei giovani italiani

Anno
2000
2007
2012
Tasso assoluto di disoccupazione
10,4%
6,5%
11,2%

Tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni)

 
26,2%
 
20,3%
 
41,2%

Under 24 che hanno abbandonato gli studi dopo aver conseguito solo la licenza media

 
25,3%
 
20,8%
 
17,6%

Neet (giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano)

 
20,9%
 
18,9%
 
23,9%

 

Per approfondimenti:

I giovani che non lavorano e non studiano (Istituto Regionale Programmazione Economica Toscana 2012)

Education at a Glance 2013 (OECD indicators 2013)

Focus “La dispersione scolastica” (Miur 2013)

Benessere equo sostenibile e sostenibile in Italia (Cnel – Istat 2013)

Rapporto annuale 2013: la situazione del Paese (Istat 2013)

Rapporto sulla situazione sociale del Paese Censis 2013 (Censis 2013)

Giovani che non studiano e non lavorano (Istat 2013)

Rapporto sulla coesione sociale 2013 (Istat, Inps, Ministero del Lavoro 2013)

La produzione e la lettura di libri in Italia (Istat 2013)

 

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