latecnicadellascuola.it – 10 maggio 2015
“Organico di diritto ridotto all’osso. Altro che organico funzionale!”
░ Il Governo Renzi promette più insegnanti in tutte le scuole, pari ad un aumento dei posti di quasi l’8% per ogni scuola, ma nel frattempo si sta producendo un organico di diritto ridotto all’osso. Di Lucio Ficara.
I vari ambiti territoriali stanno lavorando, con calcolatrice alla mano, sugli organici di diritto 2015/2016. Tutte le cattedre sono state fatte, cercando di non concedere ore eccedenti a nessuna classe di concorso e riportando in modo rigido e vincolato le cattedre alle canoniche 18 ore. Anche per 2 sole ore mancati, il docente titolare di una scuola, dovrà completare in altra scuola, in modo da fare una cattedra orario esterna. Per il prossimo anno, le cattedre orario esterne sono molto più diffuse dell’anno scolastico che si sta concludendo. Dai dati acquisiti, ancora parziali, ma molto indicativi, i docenti in soprannumero nella propria scuola e quelli che si troveranno in esubero provinciale, sono ancora una volta in crescita. Rispetto a questi dati e alla prospettiva di maggiori esuberi, nasce spontanea una riflessione: “perché non concedere un maggiore numero di ore in organico di diritto?”…. Si continua a fare gli organici in modo risicato, non concedendo quelle ore eccedenti per le classi di concorso in sofferenza e per recuperare qualche soprannumerario, in modo da evitare qualche esubero…. Stando ai fatti reali, l’organico funzionale resta ancora una probabilità, mentre l’organico di diritto è una realtà, fatta di tagli e restringimenti di cattedre. In questi giorni si stanno componendo gli organici delle scuole secondarie di secondo grado, e la conseguenza di ciò sono i numerosissimi soprannumeri che le segreterie scolastiche stanno comunicando agli interessati, che dovranno entro 5 giorni da tale comunicazione produrre richiesta di trasferimento in modalità cartacea. Speriamo solo che, con l’organico funzionale, se verrà attuato, si dia ai perdenti posto la precedenza, se vorranno rientrare nelle loro scuola di titolarità.
www.internazionale.it – 11 maggio 2015
“I tre silenzi del Governo che fanno male alla scuola”
░ Abbiamo visto il dissenso, verso il Governo, di cinquecento mila persone, e quello chiaramente argomentato di Israel e di Vertecchi; giungono adesso le parole (che riportiamo parzialmente) dell’ex ministro Tullio De Mauro. Margaritae in sterquilinium, e Renzi fa la figura del pullus gallinaceus. Alla fine di questa triste storia, si scoprirà che la inopinata introduzione, nel testo de La buona Scuola, della chiamata diretta triennale viene dal solito ennesimo diktat della U.E.
…Sta nel potere delle nostre parole rendere significativi anche i silenzi. A me pare che nei testi di ispirazione renziana ci siano tre silenzi da segnalare, tre peccati di omissione. Sono silenzi che colorano malamente tutto ciò che si dice. Se non verranno corretti, devono metterci in allarme fin d’ora per le future politiche scolastiche governative e, ciò che più conta, per le sorti della nostra scuola. Il primo silenzioè il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola ha fatto e fa. Se non abbiamo voglia o capacità di guardare in faccia la realtà del nostro paese, non capiamo che cosa dobbiamo alla scuola sia pure in assai diversi gradi a seconda dei suoi diversi livelli. Dobbiamo moltissimo ai livelli di base, alle scuole dell’infanzia ed elementari, assai meno, purtroppo, alle scuole medie superiori. Ma anche questa differenziazione manca nella prospettiva renziana. La scuola, come fanno i giornalisti meno informati, è considerata come un blocco unitario, indifferenziato. Non se ne capiscono così i meriti e, anche, alcuni limiti. All’inizio del cammino nell’età della repubblica la scuola e con lei l’intera società italiana si sono trovate schiacciate dall’eredità dello stato monarchico e fascista. Quasi due terzi degli ultraquattordicenni, il 60 per cento, erano privi di licenza elementare, un terzo dei quali analfabeti … Pochi, nel ceto intellettuale e politico, si rendevano ben conto di ciò: Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Anna Lorenzetto, Giuseppe Di Vittorio, Piero Calamandrei. Soltanto dopo quasi dieci anni, alla pattuglia sparuta si aggiunse un giovane parroco rompiscatole del suburbio fiorentino, rimasto più noto per merito, dobbiamo dirlo, del Sant’Uffizio o simili. Il giovanotto aveva capito che era impossibile portare le parole del Vangelo a chi era immerso nell’analfabetismo e, in più, gli appariva già sedotto dalle prime ondate del consumismo, di cui nessuno, Pier Paolo Pasolini a parte, si rendeva conto. Cominciò a trafficare con le statistiche per capire quale era l’estensione del fenomeno. E scrisse un libro, “Esperienze pastorali”, che dispiacque alla sua chiesa, che isolò l’autore e lo relegò in una sperduta parrocchia di montagna, a Barbiana, sopra Vicchio, nel Mugello… Si chiamava Lorenzo Milani. Dinanzi alla realtà di dominante mancata scolarità la reazione fu lenta…. Mentre il parlamento discuteva del creare o no una scuola postelementare che onorasse il precetto costituzionale degli “almeno otto anni” di scuola “obbligatoria e gratuita” (articolo 34, comma 2), ragazze e ragazzi la scuola postelementare cominciarono a farsela da sé affollando i diversi canali che lo stato offriva e cercando di rimanerci. Varata nel 1962 la scuola media inferiore unificata, gli otto anni di scuola cominciarono a diventare realtà per percentuali crescenti… Le scuole elementari hanno raggiunto un doppio risultato: portano al loro termine il 100 per cento dei loro alunni e questi, nei confronti internazionali, si collocano tra quelli con i più alti livelli di competenza…. In complesso, l’intera scuola di base è riuscita a portare alla licenza media dell’obbligo quasi il 100 per cento dei figli di famiglie in maggioranza analfabete o semianalfabete ancora quarant’anni fa, e oggi in maggioranza dealfabetizzate. E perfino quello che è l’anello debole, la scuola media superiore, porta al diploma l’80 per cento di ragazzi e ragazze. E in questa scuola le nostre straordinarie ragazze nei test comparativi internazionali raggiungono punteggi superiori alla media delle loro compagne europee. Questa è la scuola cui, senza conoscerla, voi volete mettere mano. Il vostro silenzio su ciò che la scuola ha saputo e sa fare fa temere che il vostro metter mano sia un manomettere… “Se per strada incontro un mio collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”: così amava dire Guido Calogero nei lontani anni cinquanta e ne hanno conservato memoria quelli che lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui il confino come Carlo Azeglio Ciampi…. Interrompendo a tratti i suoi preziosi lavori specialistici di filosofo e di storico del pensiero antico e andando in giro per le scuole a conoscerne e capirne i problemi, aveva imparato quanto è duro, quanto è degno di riconoscenza e stima il lavoro di chi insegna. Voi cappelli non ne portate più, ma fermarvi e inchinarvi potreste e dovreste.
C’è un secondo silenzio. Guardiamo con freddezza e distacco alle cose. Nel fare quel che ha fatto e fa, la scuola ha fatto e, tra tagli e insulti, continua a fare il dover suo, occorre dire. È un dovere costituzionale, le scuole non possono sottrarsi. L’insegnamento è libero, dice la Costituzione (articolo 33, primo comma), ma la scuola no, non è libera o lo è solo entro i paletti che la Costituzione ha fissato. Diffidenti o preveggenti i costituenti stabilirono una serie di vincoli. 1. La scuola deve essere “aperta a tutti” (articolo 34 comma primo: la frase è di sei parole, brevissima, e starebbe bene sull’ingresso di tutte le scuole): Gianni e Deborah non ci piacciono, ma non possiamo cacciarli via. 2. La scuola deve essere anzitutto e comunque luogo di un’istruzione “obbligatoria e gratuita” “impartita per almeno otto anni” (articolo 34 comma secondo). 3. Di conseguenza nemmeno la repubblica può cantare “sempre libera degg’io”: severa, la Costituzione le dice che deve istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (articolo 33, comma secondo). In altre parole istruirsi è sì un diritto soggettivo di cittadini e cittadine, ma “rendere effettivo questo diritto” non è una faccenda privata, è un dovere della e per la repubblica, che, vincendo i pianti dei ministri del tesoro, deve trovare i mezzi per consentirne l’esercizio (articolo 34, comma quarto). Non bisogna essere esimi costituzionalisti per capire perché tanta attenzione per la scuola. La Costituzione è scritta con grande chiarezza (per questo ha perfino vinto un premio Strega). Proprio perché “aperta a tutti” e perché “obbligatoria per almeno otto anni” la scuola è l’unico luogo istituzionale in cui per forza devono ritrovarsi, almeno nei loro anni giovani, “tutti i cittadini (…) senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3, comma primo). È qui, nella scuola, che la repubblica può adempiere al suo “compito” (questa parola fu pensata, scelta e confermata con cura dai costituenti): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3, comma secondo). La scuola della repubblica è il luogo privilegiato per vincere le limitazioni della libertà e dell’eguaglianza, rimescolare le carte della stratificazione sociale, trasformare le diversità in ricchezza culturale comune, favorire lo sviluppo delle persone, costruire le premesse per l’effettiva partecipazione attiva alla vita del paese. Voi che mandate i figli all’American talent school non sapete che cosa gli fate perdere (o lo sapete ma non v’importa niente): la progressiva costruzione di una società di persone libere. La scuola dunque, come vide Piero Calamandrei e tornarono poi a spiegare i ragazzi di Barbiana, non è un pezzo qualunque dello stato, ma è un “organo costituzionale”. È entro questi limiti che la repubblica “detta le norme generali sull’istruzione” (articolo 33, comma secondo). Buone norme per la scuola devono richiamarsi sempre alla sua natura di delicato, essenziale organo costituzionale. La “Buona scuola” ne tace. È il secondo, preoccupante silenzio. Omissione voluta? Oppure è una sciatteria, una dimenticanza non voluta “con l’aggravante della buona fede”, come diceva don Milani ? Terzo silenzio, infine. Almeno dagli anni ottanta, alcuni sospettavano che gli analfabeti in Italia non fossero solo quelli che si autocertificavano tali ai censimenti dell’Istat. Furono tentate stime. Poiché si accertava che il 20 per cento delle ragazze e dei ragazzi uscivano dalla scuola media con più o meno gravi difficoltà di accesso a testi scritti, si ipotizzò che questa percentuale potesse proiettarsi sulla popolazione adulta. L’ipotesi era ottimistica. Oggi, dopo tre indagini osservative internazionali (fondate su osservazioni, non su autovalutazioni) sappiamo che in tutti i paesi ricchi e consumistici una parte consistente di popolazione, dopo avere raggiunto in età scolastica livelli anche eccellenti di competenza nella comprensione della lettura, nella scrittura, nel calcolo, nel ragionamento scientifico, in età adulta tende a dealfabetizzarsi…. Fattore determinante non è evidentemente da sola la qualità della scuola, ma sono gli stili di vita che allontanano chi è uscito da scuola dalla voglia di tenersi informato, di ragionare, di partecipare in modo attivo alla vita sociale. E così le competenze acquisite a scuola si indeboliscono, si avvizziscono, perfino muoiono… Da decenni, in altri paesi, si sono sviluppati antidoti specifici: un’ampia offerta di corsi per l’istruzione degli adulti. In Italia siamo astralmente lontani da ciò. … Proposte serie sulla scuola non possono mettere da parte quello che la scuola può e deve fare per l’istruzione degli adulti. Oltre tutto i renziani amano molto gli anglismi e l’espressione tecnica in uso per la cosa è lifelong learning, imparare per tutta la vita. Ma loro non l’hanno usata, e non per purismo: la sconoscono, come si dice in Sicilia. … Matteo Renzi pareva deciso a innovare prendendo in mano lui stesso il gran groviglio educativo e l’intento era e resta in sé positivo. Il risultato per ora è molto insoddisfacente…. Le buone intenzioni del capo del governo, svaporando, hanno infine portato il 27 marzo al disegno di legge presentato al parlamento dai tre ministri di settore, Giannini, Madia e Padoan. Le omissioni di cui si è detto qui sono pesanti. Se non saranno corrette prefigurano un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica.
ItaliaOggi – 12 maggio 2015
“A ogni scuola i suoi insegnanti”
░ Gli insegnanti saranno scelti dal dirigente, anche su autocandidatura; l'incarico sarà triennale; in sostanza, si azzererebbero tutti i titoli che con anni di sacrifici e difficili scelte (e privazioni, perché scegliere è tagliare via l’alternativa non scelta) e si farebbe spazio alla discrezionalità (o, peggio, all’arbitrio) di persone, i dd.ss., ai quali vengono assommati poteri che non sono in grado di esercitare. Da questa tombola si salverà, paradossalmente, soltanto l’insegnante che non verrà chiamato da un d.s; a lui l’assegnazione la darà il funzionario dell’Ambito territoriale (oppure dell’USR di competenza) e, in questo caso l’unico criterio immaginabile sarebbe il punteggio in graduatoria.
I dirigenti scolastici sceglieranno i docenti ai quali proporre incarichi triennali di insegnamento rinnovabili. E i docenti non potranno più vantare il diritto di rimanere nella stessa scuola se il preside non rinnoverà loro l'incarico. I dirigenti sceglieranno anche i docenti che comporranno il loro staff nell'ordine del 10% dell'organico. Lo prevede l'articolo 7 del disegno di legge sulla scuola. Il dirigente proporrà gli incarichi agli insegnanti di ruolo assegnati all'ambito territoriale di riferimento, anche tenendo conto delle candidature presentate dai docenti, una delle novità introdotte in sede emendativa. E potrà utilizzare il personale docente in classi di concorso diverse da quelle per le quali è abilitato, purché possegga titoli di studio validi per l'insegnamento della disciplina, percorsi formativi e competenze professionali coerenti con gli insegnamenti da impartire. L'incarico avrà durata triennale e rinnovabile per ulteriori cicli triennali e sarà conferito con modalità che valorizzeranno il curriculum, le esperienze e le competenze professionali, anche attraverso lo svolgimento di colloqui. Le procedure dovranno essere trasparenti: gli incarichi saranno pubblicati sul sito internet della scuola di riferimento insieme al curriculum di ogni docente incaricato. Va detto subito che non si tratterà di procedure negoziali. Al docente, infatti, non sarà consentito di rifiutare la proposta. Ma se dovesse ricevere più proposte contemporaneamente, sarà il docente a scegliere quale proposta accettare. In caso di inerzia dei dirigenti scolastici nella individuazione dei docenti, sarà l'ufficio scolastico regionale a provvedere ad assegnarli d'ufficio alle istituzioni scolastiche. Idem per gli incarichi ai docenti non destinatari di alcuna proposta. Più che di proposte, sarebbe opportuno parlare di nomine. E cioè di incarichi che saranno conferiti dall'amministrazione nell'esercizio del proprio potere autoritativo. Perché i docenti non avranno più alcun diritto nella scelta della sede. Ma questo potrebbe essere un punto debole del provvedimento, nel quale potrebbe incunearsi il contenzioso. L'ordinamento prevede, infatti, particolari tutele in favore dei disabili e di chi li assiste (si veda la legge 104/92). E prevede anche precedenze per i coniugi di militari trasferiti d'autorità (ex legge 100) e per gli amministratori locali. Ma il disegno di legge non ne tiene conto.
http://www.roars.it – 13 maggio 2015
“Prove INVALSI: e dalli con il termometro…”
░ di Giorgio Israel. Riportiamo parzialmente.
Sono anni – non mesi – che vengono avanzate critiche argomentate e costruttive nei confronti dell’Invalsi: autoreferenzialità dell’ente sottratto a ogni valutazione e composto sempre dalle stesse persone, discutibilità dei metodi statistici e dei test proposti, eccesso di intervento con la prova per la secondaria di primo grado che fa media, sconsiderata incentivazione del deleterio “teaching to the test”, ecc. Oggi su buona parte della stampa – in cui ogni voce anche moderatamente contraria non trova più spazio – si leva un grido unanime: «È uno scandalo. Rifiutare i test Invalsi è come rompere il termometro quando si ha la febbre». E giù prediche sulla valutazione e l’assenza di meritocrazia. Che parli di termometro il capo dei presidi italiani, si può anche capire. Lui questa frase l’ha sentita dire da personaggi che reputa di alta e indiscutibile competenza. Per esempio, da Roger Abravanel… Quella frase l’ha sentita dire poi da accademici propriamente detti, come il prof. Andrea Ichino che, ancor oggi, sul Corriere della Sera, ricanta la solfa del termometro. Vorrei allora raccontare al riguardo un episodio di alcuni anni fa. Mi trovavo in una commissione ministeriale per la valutazione assieme a lui e una decina di altri componenti. Si accese proprio una discussione sui metodi di valutazione oggettivi e standardizzati, con il prof. Ichino che sosteneva accanitamente le metodologie tipo Invalsi, con i quiz ecc. Gli feci notare che parlare in questo ambito di oggettività era assolutamente improprio e che ogni parallelismo con la fisica (con le scienze dei fatti materiali) era assurdo: tale era il parallelismo con il termometro. Osservai che la fisica si distingue per una piccola cosuccia come la possibilità di definire unità di misura in modo tale da essere adottate in modo universale da chiunque senza possibilità di equivoci e contestazioni, insomma aventi carattere oggettivo. Tale era l’unità di lunghezza (metro, di cui esiste un campione universale di riferimento) e anche l’unità di temperatura, anche se a voler essere rigorosi, prima dell’avvento della termodinamica anche la temperatura non era considerata come una grandezza misurabile in modo oggettivo. Osservai: Se ci mettiamo a misurare il perimetro di questo tavolo ciascuno con un metro non truccato e garantito conforme allo standard, a parte piccoli scarti previsti dalla teoria della misura otterremo lo stesso risultato». E poi chiesi: «Nel campo della valutazione delle qualità immateriali quali sono le unità di misura? In particolare, quale sarebbe l’unità di misura delle competenze?» Il collega ci pensò su un poco e poi sentenziò in modo netto: «L’unità di misura delle competenze è il test». Una risata omerica avrebbe dovuto accogliere una simile frase. Chiunque capisce che il test è anch’esso una costruzione immateriale, fabbricata da una persona o da un gruppo di persone con le proprie (rispettabili quanto discutibili) idee circa cosa sia la matematica, la letteratura, la storia ecc. Un’altra persona o gruppo di persone potrebbe avere idee diverse, anche opposte e degne di confronto. Per esempio, chi scrive ritiene che concepire la matematica come “problem solving” è non soltanto discutibile ma espressione di ignoranza crassa. Avrò ragione o torto ma ho buoni argomenti degni di essere discussi. Come è possibile costruire test di validità universalmente condivisa, oggettivi, su simili basi? Una buona valutazione non può andar oltre un processo di confronto tra vedute diverse che miri al massimo possibile di condivisione e di equanimità nei giudizi; il che non è affatto la stessa cosa dell’oggettività. Ora se siamo al punto che anche un rispettabile professore universitario coltiva una simile confusione di idee e straparla di oggettività e termometri, come se l’Invalsi potesse essere l’equivalente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, di che stupirsi? Questo è il pantano in cui stiamo affondando.
www.corriere.it – 13 maggio 2015
“#ringraziaundocente Anna, Ida, Tilde e Paola, «minatrici di talento» tra le donne della mia vita”
░ di Beppe Severgnini. Persona sensibile; intellettuale serio. Il nostro ringraziamento.
Gli insegnanti italiani vengono pagati in ricordi e stima, perché una retribuzione adeguata all’importanza del loro lavoro, in Italia, non riusciamo a dargliela. Anche la considerazione sociale — che non paga il mutuo, ma solleva lo spirito — non è quella d’un tempo. Questo posso dire, alle quattro donne della mia scuola: siete tra le donne della mia vita. Anna Mancastroppa, all’asilo Montessori. Ida Prola, maestra alle elementari di Borgo San Pietro. Tilde Chizzoli, professoressa di lettere alle medie Civerchio. Paola Cazzaniga Milani, insegnante di latino, greco, ironia e tolleranza al liceo classico Racchetti. Tutte diverse, tutte a Crema. La signorina Mancastroppa avrà avuto vent’anni; ma era, per noi, una donna d’età indefinita, circondata da un’aureola di pazienza. Aveva il sorriso d’una santa minore, portava i cappelli alla Brigitte Bardot, indossava un grembiule accollato e c’insegnava le regole-base della convivenza (chiedi permesso, saluta, ringrazia, metti in ordine, aiuta i piccoli e lascia in pace i grandi). Il pomeriggio ci portava a giocare in giardino, tra la vite e i gelsi, dove trovavamo lombrichi pasciuti: li offrivamo come anelli alle bambine, che scappavano urlando. Primi riti di corteggiamento, che la signorina Anna osservava compiaciuta. Ida Prola era la maestra. Una donna non più giovane, decisa, materna, compatta: una versione didattica di Angela Merkel, carrozzata Anni 60. Nessuno capiva dove finisse il nome e iniziasse il cognome: per noi era Idaprola. Tempi complicati, ricordo. Volevo stare a guardare Daniela, e mi costringevano a scrivere la «B» maiuscola; detestavo i punti esclamativi e mi obbligavano a simulare entusiasmo ortografico; rifiutavo la «à» come alternativa di «ha» (verbo avere), e nessuno mi ascoltava, quando sostenevo che avrebbe avuto vita breve. Ricordo quando Idaprola ordinò di disegnare l’inverno e io dipinsi l’inferno. Quando le dissi «il rosso è più allegro del bianco» sorrise, e questo non lo dimenticherò mai. Matilde Chizzoli, detta Tilde, mi ha insegnato italiano e latino alle medie. Autorevole, miope, eretta, una messa in piega scultorea: una premonizione padana di Margaret Thatcher. In terza media — l’ho raccontato su “La Lettura” — mi affidò due ragazzi che rischiavano la bocciatura. «Il tuo voto sarà misurato sul loro voto, il tuo successo sul loro successo», annunciò in classe, incurante del mio sguardo angosciato. Aveva ragione lei; e ha cambiato la vita a tre persone. Grazie alla Chizzoli, ho imparato insegnando: anche un po’ dell’umiltà di cui avevo bisogno, venendo da una famiglia privilegiata. Ho passato tanti pomeriggi con quei due nuovi amici, Adriano e Maurizio. Loro mi hanno insegnato a giocare a calcio, a basket, a guidare un motorino 50cc e a conoscere le ragazze; io gli ho spiegato un po’ d’inglese e Fogazzaro. Ci ho guadagnato, sono convinto. Paola Cazzaniga Milani, fumatrice incallita, urlatrice occasionale, sguardo di fuoco e voce rauca: Patti Smith in cattedra, un vocabolario al posto della chitarra. I primi anni Settanta furono gli anni della prepotenza (e dopo la prepotenza, lo sappiamo, viene il piombo). La prof era fuggita da una Milano scolasticamente incattivita. A Crema eravamo contestatori artigianali e, tutto sommato, ragionevoli. Amavamo discutere e lei ci lasciava fare (politica, sesso o Sofocle, non importa). Il patto era: io rispetto voi ma voi rispettate me, e studiate latino e greco. L’abbiamo fatto. Ci è servito. Gran donna, la Milani: una rockstar. La prova che la parola «insegnante» deriva da «in» e «signo»: chi sta in cattedra ha il compito, e l’onore, di lasciare un segno. La selezione è prerogativa dell’università. Alle elementari e alle medie — inferiori e superiori — bisogna scavare dentro i ragazzi, scovarne le inclinazioni, correggerne le debolezze. Gli insegnanti buoni lo sanno fare: sono infatti buoni insegnanti, minatori di talento e spacciatori d’entusiasmo. Gli insegnanti cattivi, quasi sempre, sono cattivi insegnanti. Pochi se ne ricordano, nessuno li ringrazia: la loro punizione è quella.
latecnicadellascuola.it – 14 maggio 2015
“Renzi: è falso dire che i presidi chiameranno i prof. Ci dica allora a che servono gli albi”
░ Di Alessandro Giuliani: Il premier sostiene che è falso dire che “il preside assume l’amico dell’amico”. Ma il testo del ddl su cui tra una settimana si esprimerà la Camera lo smentisce: si parla di istituzione di albi territoriali e di “conferimento degli incarichi con modalità che valorizzino il curriculum, le esperienze e le competenze professionali, anche attraverso lo svolgimento di colloqui”. Inoltre, il presidente del Consiglio nega che i precari potrebbero essere licenziati dopo 36 mesi: eppure l’art. 12 dice proprio questo.
Scorrendo il nuovo testo del ddl di riforma, però, quelle con non sembrano corrispondere al vero appaiono proprio le parole del presidente del Consiglio. Perché all’articolo 2 del testo si legge che “i dirigenti scolastici, con riferimento al piano triennale dell'offerta formativa ai sensi del comma 6, individuano il personale da assegnare ai posti dell'organico dell'autonomia, con le modalità di cui all'articolo 7”. Non solo: proprio all’art. 7 troviamo scritto che “il dirigente scolastico può utilizzare il personale docente in classi di concorso diverse da quelle per le quali è abilitato, purché possegga titoli di studio, validi per l’insegnamento della disciplina, percorsi formativi e competenze professionali coerenti con gli insegnamenti da impartire”. E, come se non bastasse, che “il conferimento degli incarichi” avviene “con modalità che valorizzino il curriculum, le esperienze e le competenze professionali, anche attraverso lo svolgimento di colloqui”. Ora, a noi e a chi contesta questo passaggio della riforma, appare inequivocabile che se non stiamo parlando della chiamata diretta poco ci manca. Ma il premier ha anche detto che è falso dire che con il ddl Buona Scuola i supplenti non potranno più lavorare oltre 36 mesi. Però all’articolo 12, l’unica modifica adottata dai parlamentari della commissione Cultura della Camera è stata quella di posticipare l’avvio del conteggio del triennio massimo di supplenze a quando verrà pubblicato il ddl di riforma. Quindi, presumibilmente, riforma da approvare permettendo, il conto alla rovescia potrà iniziare dal prossimo mese di settembre. E per chi potrà contare sulle supplenze annuali, si esaurirà nel 2018. Il nuovo articolo 12, comma 1, del resto parla chiaro “I contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, con il personale docente, educativo, amministrativo, tecnico ed ausiliario presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, per la copertura di posti vacanti e disponibili, non possono superare la durata complessiva di trentasei mesi, anche non continuativi”.Ai lavoratori della scuola, anche questo testo non ha necessità di essere interpretato: tanto che nessuno ha messo in dubbio, sinora, le conseguenze di queste nuove norme. Ma Renzi dice che non è così: che si tratta di falsità. Forse, il premier farebbe bene a preparare un quarto video: quello attraverso il quale, magari accanto ad un tecnico del Miur che ‘mastica’ di scuola, ci farà finalmente sapere che quanto hanno interpretato centinaia di migliaia di persone dalla lettura del ddl è clamorosamente sbagliato.
www.larepubblica.it – 15 maggio 2015
I dissidenti del Pd tornano in trincea “Se la riforma non cambia noi non la votiamo”
░ Chiedono cambiamenti su tre punti: poteri del preside, finanziamento privato, precari da assorbire. Li otterranno ? Sarebbe la sola strada per riqualificare il PD agli occhi degli elettori. Di Annalisa Cuzzocrea
…Proprio sulla scuola, su uno degli argomenti più di sinistra che si possa immaginare, alcuni di loro (Fassina, D’Attorre) sono pronti allo strappo finale. La minoranza pd si è riunita ieri per la prima volta dopo lo smacco dell’Italicum. Non erano tutti. Una parte, dopo il voto di fiducia sulla legge elettorale, sta prendendo altre strade. Ma c’erano, in sala Berlinguer alla Camera, una cinquantina di volti preoccupati. Perché tocca combattere di nuovo, e la sconfitta è troppo recente per capire com’è meglio farlo. Così, i leader di Area riformista e Sinistra dem Roberto Speranza e Gianni Cuperlo cercano di tenere viva l’idea di una battaglia che si può vincere. O che comunque, bisogna portare fino in fondo per tentare di cambiare una legge che non piace a nessuno di loro. È la stessa visione dell’ex premier Enrico Letta: «La riforma della scuola ha bisogno di gradualità, non di fretta — ha detto al salone del libro di Torino — se l’impegno di Renzi si applicasse anche a fare le cose perbene l’Italia se ne potrebbe giovare, ma nessuno glielo dice perché i politici sono condizionati dalla necessità di avere uno stipendio». E ancora: «Si è voluta fare una cosa molto di corsa, molto di fretta, senza rendersi conto che si toccano milioni di famiglie, bambini e insegnanti». È sui numeri, che vuole soffermarsi chi cerca di convincere il premier ad ascoltare: «A fare sciopero sono state 618mila persone », dice l’ex capogruppo Roberto Speranza. «Hanno rinunciato a un giorno di stipendio, a 70, 80, 90 euro. Davanti a questo, non puoi buttarla sulla burocrazia, sui sindacati. È una roba di popolo, una grande parte del nostro popolo che chiede una risposta». Le soluzioni le hanno messe in una ventina di emendamenti che toccano quattro punti fondamentali: «Il primo è il ruolo del preside — spiega sempre Speranza — in commissione si è già modificata la parte sulla stesura del piano di offerta formativa, su cui avranno voce in capitolo anche il collegio dei docenti e il consiglio d’istituto. Ma c’è ancora da cambiare la chiamata degli insegnanti, anche quella dev’essere più condivisa. Lo ha detto bene Carlo Galli: la filosofia di questa riforma fa male ai docenti perché un preside così forte ridurrà il loro spazio di autonomia. Quel che era rimasto ai professori italiani, mal pagati, senza un adeguato riconoscimento sociale, è una libertà di espressione ora in pericolo». La parte su cui si lavora con più attenzione è quella della possibilità di donare il 5 per mille alla scuola dei propri figli: «La cosa grave è che questa norma non fa neanche riferimento a risorse aggiuntive — spiega Stefano Fassina — così, soldi del fondo riservato alla scuola vengono redistribuiti sulla base delle dichiarazioni dei redditi dei più ricchi». La conseguenza, a lungo andare, sono scuole migliori nelle zone più agiate e scuole povere nelle periferie. «Non è una cosa che un partito di sinistra può permettere», si sfoga Speranza. Così, la prima modifica tentata sarà cancellare l’intero articolo. Mentre un secondo emendamento propone di ribaltare le percentuali: non più l’80 per cento alla scuola e il 20 al fondo di perequazione, ma il contrario. Infine, c’è la questione dei precari, con la richiesta di un percorso di entrata certo per chi resta fuori dalle 100mila assunzioni. E ci sono gli sgravi per le private: «Darli anche alle scuole secondarie significa incentivare i diplomifici, alla faccia della meritocrazia»….
latecnicadellascuola.it – 16 maggio 2015
“Il video di Renzi non è diretto ai prof, ma agli elettori di Berlusconi”
░ Di Annamaria Bellesia
Basta guardare le news. Il video di Renzi ha prodotto migliaia di articoli e commenti. Bocciato da chi nella scuola ci lavora e ben conosce le irricevibili proposte, sta facendo breccia nell’opinione pubblica e raccogliendo consenso. Fa parte di una nuova strategia comunicativa diretta a chi di scuola non ci capisce niente, ma crede facilmente ai miliardi stanziati, alle centomila assunzioni, alla bontà del progetto complessivo. A quell’opinione pubblica che ce l’ha coi sindacati, con i dipendenti pubblici, e con i prof che “lavorano poco”. Su questo facile cavallo di battaglia già in passato si sono costruite campagne elettorali vincenti. Non dimentichiamo i dati pubblicati dai giornali nazionali: la stragrande maggioranza degli italiani non sa di cosa si parli precisamente con la riforma della scuola. Renzi si rivolge a loro direttamente, con lavagna, gessetto, e messaggi chiari e semplici, che fanno presa: un colpo da maestro! Da maestro di politica e comunicazione. L’obiettivo è uno solo: raccogliere voti a destra alle prossime regionali. Renzi ha capito di essersi alienato i voti degli insegnanti, ma in questa fase storica di debacle del partito di Berlusconi (v. esiti elettorali a Trento e Bolzano) ha intuito che pescando in quell’area può ottenere più voti di quelli che perde. Ha già cannibalizzato Scelta civica, e lo stesso si appresta a fare col Ncd (al quale è riuscito abilmente a sottrarre un ministero chiave senza conseguenze). La grande operazione mediatica del premier ha suscitato reazioni a catena nella scuola, ma di fatto i prof parlano fra di loro, sui siti specialistici e nei social, ma i motivi della protesta e dell’indignazione non sono colti all’esterno. Bisognerebbe portarsi sullo stesso terreno del premier, nelle piazze, sui giornali e sui media nazionali che fanno opinione. E fare presto. Ci vuole qualcosa di eclatante, come la trovata della lavagna e del gessetto. Bisognerebbe che i sindacati si facessero promotori di una qualche iniziativa pubblicitaria o mediatica ben studiata e ben gestita, ricorrendo magari anche a degli esperti della comunicazione di massa. Bisogna cercare di fare il tutto per tutto. Renzi docet.