www.latecnicadellascuola.it – 2 novembre 2014
“Svendesi abilitazioni TFA”
░ Silvana La Porta parlamentare del M5S sulla questione dei TFA: sempre meno utili, per i precari; molto utili per i bilanci finanziari degli atenei. M5S lancia un appello al Ministro; ma il Ministro è, come i suoi predecessori, rettore di ateneo.
Professori finalmente. Ma senza una cattedra. Continua in Parlamento la battaglia del M5S per chiedere chiarimenti sui vincitori del Tfa, il canale di abilitazione che ha sostituito (malamente) le vecchie Ssis. Un percorso selettivo, costoso, gestito in maniera indecente dalle università. Sono le parole di Silvia Chimienti in un suo intervento alla Camera di qualche giorno fa. Centinaia di migliaia di aspiranti per un numero esiguo di posti. Ma il vero paradosso è un altro. Gli abilitati del primo ciclo Tfa non hanno potuto spendere il loro titolo l’anno scorso a causa del mancato aggiornamento delle graduatorie, si sono visti sorpassare nel conferimento delle supplenze dai non abilitati e ora attendono di essere convocati dalla seconda fascia delle graduatorie d’istituto. Siamo a novembre, ma in molte province le graduatorie d’istituto non sono ancora pronte. Inoltre nel 2015 Renzi promette di assumere tutti gli abilitati delle Gae e di eliminare gli abilitati della seconda fascia. Al danno si aggiunge la beffa. Come se non bastasse l’errore si ripete: è stato bandito un secondo ciclo di Tfa e anche questa volta, come nel 2012, si è assistito a ritardi, errori. Ricorrezioni successive, costi esorbitanti e incostituzionali per partecipare alle selezioni stesse. In tutta Italia, quest’anno come due anni fa, migliaia di neolaureati hanno pagato enormi cifre per sostenere queste farsesche, così le definisce la Chimienti, prime prove create ad hoc per far partecipare il maggior numero di persone e contemporaneamente impedire alla maggior parte degli aspiranti la partecipazione alle seconde prove. Un vero business sulla pelle dei futuri docenti. Chi si assumerà le responsabilità di queste anomale procedure, come può il Miur pretendere di selezionare i docenti più meritevoli, se coloro che formulano le domande delle prove sbagliano nel formularle? I Tfa non sono dei semplici concorsi per conseguire l’abilitazione. I Tfa sono un’offesa al buon senso, all’intelligenza e alla dignità di una larga fetta di laureati italiani. I Tfa servono per fare cassa sui più deboli, illudendo le persone con una speranza che in realtà non esiste. I Tfa creano insegnanti che non potranno insegnare. Che Stato è uno stato che fa spendere soldi ai cittadini per formarli a una professione e poi nega loro l’accesso a quella stessa professione? Il M5S annuncia un’interrogazione parlamentare sugli errori compiuti dal Miur nella fase preselettiva del Tfa secondo ciclo e lancia un grande appello al ministro Giannini, un appello accorato per porre fine alla truffa legalizzata dei Tirocini formativi attivi.
www.corrieredellasera.it – 3 novembre 2014
“«Sì all'inglese lingua europea. Allarme rosso per la scuola»”
░ Intervista a Tullio De Mauro, con riferimento a un suo recente libro.
D. Perché la questione della lingua in Europa è diventata cruciale?
R.«Se la prospettiva verso cui vogliamo andare è quella di una federazione di Stati, bisogna che ci sia, come già Aristotele insegnava, un terreno linguistico comune. Non è possibile che uno svedese e un napoletano discutano di politiche finanziarie in lingue diverse. E non è possibile delegare la discussione a un’élite ristretta».
D. Il guaio è che il multilinguismo… è un tratto distintivo europeo. Come si può conciliare questa storia con l’aspirazione unitaria?
R.«Le due cose non si escludono. Ricordo che l’aspirazione all’unità nazionale, statale, intorno all’italiano è stata un filo conduttore della nostra storia. Tanti, compreso qualche linguista, pensavano che l’unità linguistica, raggiunta negli anni Sessanta, avrebbe spazzato via i dialetti, ma non è successo: oggi, dopo cinquant’anni, i dialetti sono ancora vivi. Così, adottando diffusamente una lingua comune in Europa, non è prevedibile che vengano lese le lingue nazionali radicate nella storia e nella cultura».
D. Lei si sofferma sulle affinità genetiche tra le lingue indoeuropee, sulla prossimità grammaticale e lessicale. Questo cosa significa?
R. «Già il linguista francese Antoine Meillet diceva, a proposito del vocabolario, che a dispetto dei nazionalismi miopi, tra le lingue europee c’è un fondo comune molto superiore alle differenze, che si è creato grazie a una rete fitta di condivisioni. E lo stesso Leopardi nello Zibaldone scrisse che guardando al vocabolario della cultura intellettuale, ci si accorgerebbe che esiste una specie di “piccola lingua” che accomuna, nelle diversità, tutte le lingue europee e che deriva in gran parte dal latino e dal greco. Il vocabolario inglese oggi è composto al 75% di prestiti dal francese o direttamente dal latino. Ci sono consonanze profonde. L’inglese è tutt’altro che vuoto di spessore culturale, e qualcuno l’ha definito una lingua neolatina ad honorem. Anche per questo sostenere che la sua adozione cancelli le identità nazionali è sbagliato».
D. Resta il problema della scuola, che in Italia ha già difficoltà a tenere un accettabile livello di formazione nella lingua materna.
R. «L’insegnamento della lingua materna resta prioritario. Ma il dato più preoccupante riguarda la popolazione adulta. Anche in Germania o nei Paesi del Nord (e persino negli Stati Uniti) più della metà della popolazione ha gravi difficoltà nel leggere e capire un testo semplice o nell’adoperare banali strumenti di calcolo. In Giappone e in Finlandia si arriva al 38%, in Italia si supera il 70. Direi che è un dato costante l’alto tasso di problemi nell’uso completo delle lingue materne: appena uscite dalla scuola, le persone finiscono per perdere ogni capacità».
D. Dal documento del governo sulla «Buona scuola» si intravedono segnali in questo senso?
R. «Semplicemente la “Buona scuola” ignora il problema linguistico e non fa alcun cenno alla dimensione dell’istruzione degli adulti, che è cruciale per la vita produttiva e per la vita sociale, perché ricade necessariamente sui figli. Una cosa è sicura: il livello di cultura sostanziale in famiglia è determinante sull’andamento scolastico dei ragazzi. Di istruzione degli adulti parlava la legge Berlinguer del 1999, ma da allora è rimasto tutto sulla carta».
D. La detrazione fiscale sui libri potrebbe servire?
R.«Se ne parla da anni, i tecnici temono che diventi una fonte di microevasione, ma sarebbe certamente utile, anche se ormai una pizza costa più di un Meridiano».
D. Al di là della questione lingua, la «Buona scuola» come le sembra?
R. «Lasciamo stare la sovrabbondanza di anglicismi persino ridicoli tipo “gamification”… In sé è un documento accattivante, c’è un’atmosfera scherzosa, nello stile di Renzi, piacevole, con contenuti bizzarri. Io non voglio buttarla sul tragico, ma i problemi della scuola purtroppo lo sono: le strutture edilizie, le lacune del personale tecnico, il rapporto con il mondo del lavoro, le prospettive didattiche… Bisognerebbe rimettere mano all’impianto della scuola media superiore, formare gli insegnanti, che hanno ancora una visione disciplinarista e che invece dovrebbero collaborare tra di loro in funzione di una prospettiva trasversale, sul saper ragionare, argomentare, parlare… La “Buona scuola” tace su questi argomenti, ma in compenso ne parla la finanziaria, che continua a tagliare sulla scuola, per non dire dell’università che è prossima a defungere».
D. Cosa pensa del Clil, cioè quel metodo che prevede l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera?
R. «Va usato con parsimonia. È già difficile avere dei buoni insegnanti di storia, figurarsi averne pure che parlino bene inglese. Diciamo che è un metodo auspicabile per alcuni insegnamenti universitari, ma per gli altri livelli mi pare poco realizzabile».
D. La «Buona scuola» vorrebbe estendere il Clil alle elementari.
R. «La riforma Gelmini prevedeva corsi di formazione inglese, per insegnanti, di 30 ore faccia a faccia, e 20 ore via internet: ma con 50 ore complessive non si arriva neanche all’Abc. Le primarie sono le scuole in cui si lavora meglio, in cui le discipline sono strumentali alla maturazione complessiva del bambino. Nei test internazionali i nostri si collocano al vertice: toccare le elementari sarebbe un delitto, perché i guai cominciano dopo. Le analisi Invalsi mostrano che tra i ragazzi usciti dalla media e i maturandi lo scarto di competenze è minimo».
D. L’iniziativa del Politecnico di Milano di adottare solo l’inglese per gli insegnamenti di master la convince?
R. «No, neanche nei master si può rinunciare alla lingua materna. Nel mondo ci sono masse di studenti che si spostano, sono i nuovi clerici vagantes : ma è difficile pensare che dei giovani trovino suggestive le università italiane perché offrono corsi in inglese. Quel che conta sono altri fattori: la qualità scientifica e le condizioni dell’accoglienza, ma questi aspetti vengono ignorati».
D. Tornando alla Babele europea, lei accenna al modello indiano e a quello del plurilinguismo svizzero.
R. «Lo ripeto: sono contro l’immagine catastrofista secondo cui l’inglese diffuso come lingua standard metterebbe a rischio le lingue nazionali. In India, nonostante le diversità etniche e religiose, l’inglese è diventato negli ultimi 60 anni una lingua secondaria affiancata al sanscrito come lingua nazionale: questo non ha comportato la morte delle parlate locali, l’urdu e l’hindi. In Parlamento si parla in inglese, nei comizi in una delle 45 lingue locali. L’esempio indiano è interessante per l’Europa».
www.latecnicadellascuola – 5 novembre 2014
“Analisi e proposte sul tema della valutazione-valorizzazione del merito dei docenti, in riferimento al documento La buona scuola"
░ La redazione dell’autorevole periodico interviene con un contributo nel dibattito sul documento renziano. Riportiamo alcuni passaggi della parte analitica rinviando, per la pars adstruens al sito del Periodico.
Ad una analisi degli elementi di forte criticità della proposta del Miur sulla valutazione e valorizzazione del merito della professionalità docente, seguono alcune nostre controproposte. … Ecco una rapida rassegna, formulata certamente per difetto, dei limiti individuati……..…
1. Mancanza di un percorso di sperimentazione del nuovo modello……………..….
2. Si vuole costruire una "nuova Scuola" senza le fondamenta di una propedeutica cultura valutativa nel sistema scolastico italiano………………..
3. Difficile definizione e quantificazione dei crediti, soprattutto didattici… Non è percorribile la strada delle prove strutturate di profitto (Invalsi o di altro tipo), che misurerebbero (ammesso pure che ci riuscissero) solo alcuni aspetti della sfida formativa, come quello dell'istruzione, non certo altri: la capacità educativa, motivante, comunicativa, relazionale, affettiva, metodologica del docente. Da un lato, insomma, si è allargato negli ultimi decenni lo spazio di azione del docente (e il documento riconosce e fa esplicito riferimento a questo cambiamento radicale del suo ruolo), dall'altro si restringerebbe adesso la sua valutazione su un singolo aspetto (da scuola anni ’50, per intenderci) della sua professionalità. La verità è che la complessità del ruolo docente rende estremamente difficile anche la valutazione dell'impatto che ha sugli allievi la qualità dell'esercizio di quel ruolo. Il documento si dilunga, nelle sue quasi 140 pagine, su diversi aspetti anche più "periferici" del sistema scuola, ma non tocca neanche una questione come questa, che è invece assolutamente centrale.
4. Mancanza di equità nell'accesso ai crediti professionali. Gli incarichi che conferiscono crediti professionali rischiano di essere attribuiti sempre alle stesse persone o magari ai docenti più "in vista". I docenti possono insomma trovarsi destinatari dei crediti professionali per una serie di motivi non necessariamente legati al loro effettivo merito: per numero di ore di insegnamento in una stessa classe (pensiamo ai coordinatori), perché sono presenti in una scuola da tanto tempo, per contiguità/simpatia rispetto alla Dirigenza, perché "si espongono" molto in collegio, perché hanno, semplicemente, "competenze politiche" più marcate di altri, e non necessariamente nel segno del merito e della qualità professionale….Il problema sarebbe inoltre accentuato dalla particolarità dei crediti professionali. Questi infatti, contrariamente ai crediti didattici e ai crediti formativi (per i quali il docente deve spesso tirare fuori i soldi di tasca propria), si riferiscono ad attività che danno già un, sia pur ridotto, vantaggio economico a chi svolge ruoli di sistema all'interno della scuola. In questo modo, la potenziale sperequazione diverrebbe doppia: ad un certo tipo di docenti verrebbero corrisposti sia i compensi legati al ruolo svolto che quelli relativi ai crediti acquisiti grazie a quel ruolo svolto. Peraltro, un ruolo che metterebbe più "in vetrina" i docenti e potrebbe favorirli anche in termini di valutazione premiale per altri aspetti, attraverso una sorta di "effetto alone" per cui la reputazione positiva goduta nell'ambito del ruolo di sistema può allargarsi meccanicamente a quella relativa alla dimensione didattico-educativa o della preparazione professionale………..
5. Possibile acquisizione strumentale dei crediti formativi. Una (prevedibile) corsa ai crediti formativi potrebbe non andare nella direzione auspicata dal Governo e potrebbe non offrire alcuna garanzia di un proporzionale miglioramento della qualità professionale dei docenti.
6. Penalizzazione dei docenti bravi che si trovano "nel posto sbagliato". La rigida regola del "66/34" genererebbe sicuramente un danno per tanti docenti meritevoli di progressione di carriera. Le scuole veramente buone, quelle dove il dirigente ed i docenti lavorano di concerto per un complessivo e continuo miglioramento della didattica e dell'ambiente di apprendimento, rischierebbero di essere paradossalmente le più penalizzate. Nel 34% destinato a rimanere a bocca asciutta sarebbero infatti compresi docenti di alto livello che avrebbero l'unico "torto" di trovarsi in una scuola dove si lavora bene e si cresce continuamente.
7. Aumento della conflittualità sociale e relazionale all'interno di quella che dovrebbe essere innanzitutto una comunità educante. La regola del "66/34" aumenterebbe inevitabilmente il livello di conflittualità all'interno dei collegi dei docenti. Gli esclusi potrebbero essere infatti fortemente tentati di assumere un atteggiamento recriminatorio o diffidente nei confronti delle scelte effettuate dal Nucleo di valutazione e perfino nei confronti dei loro colleghi "concorrenti". Una conflittualità che, se può essere esiziale e pericolosa in qualunque ambiente lavorativo, produrrebbe effetti ben più distorsivi all'interno di quella che è e dovrebbe essere innanzitutto una "comunità educante".
8. L'aggravante della situazione contingente dettata dal blocco congiunto della contrattazione e degli scatti. Presentare questa proposta all'indomani (ma, in realtà, purtroppo siamo ancora pienamente nell'oggi) del blocco della contrattazione e degli scatti stipendiali, quindi con una stagnazione nel progresso economico di carriera che dura dal 2009, significa rendere ancora più difficile l'accettazione fra i docenti del programma di riforma incentrato sul merito….
www.larepubblica.it – 6 novembre 2014
“Il caso dei supplenti senza stipendio dal 19 settembre. Un’umiliazione”
░ A poco sembra essere servita la vergogna, nello scorso a.s., del ritardato pagamento delle spettanze ai supplenti. La cosa è tornata a ripetersi, in molte scuole, per lo stipendio di settembre: le somme caricate sui POS non bastano nonostante i contratti siano stati caricati a sistema. C’è un palleggiamento di responsabilità tra MIUR e MEF (e c’era stao anche lo scorso anno), e sembra che il sistema NoiPA arranchi nel calcolo degli oneri. Ora, la Flc Cgil fa la voce grossa con il Miur.
Sara ha cominciato a lavorare il 19 settembre in una scuola elementare a Sant’Agata bolognese. Una sostituzione sino ai primi di novembre. Terminata. Ma non ancora pagata. Lo stipendio per i supplenti non arriva. «Già il viaggio, trenta chilometri al giorno, e i pasti erano a mio carico, ma pur di lavorare accetti tutto. Però insegnare senza essere pagati, se non dopo mesi, è assurdo. Ho fatto anche una sostituzione di una settimana a Castenaso, ma la scuola mi ha già detto che non ha i soldi. Non si può continuare così, io ho 35 anni e sono costretta a vivere ancora con i miei genitori, un’umiliazione». Nella situazione di Sara ci sono decine di insegnanti in provincia di Bologna chiamati per supplenze brevi dagli istituti, dalla primaria alle superiori. Le scuole comunicano al ministero dell’Economia le supplenze fatte dai docenti. I ritardi sono nell’accreditamento dei soldi, che arrivano dal bilancio del dicastero all’Istruzione. Non c’è coordinamento, il sistema si inceppa continuamente. Anche prima dell’estate: chi aveva lavorato a maggio è stato pagato a fine settembre. La Cgil protesta: «Il Tesoro deve pagare, senza più fumosi passaggi. È inaccettabile che si ignori il diritto di chi lavora e ha più bisogno». Bussano i supplenti, ma anche i loro padroni di casa. «In qualche caso chiamano le scuole chiedendo la garanzia per l’affitto», racconta Raffaella Morsia. «Così non si può andare avanti», aggiunge Francesca Ruocco. «Diremo ai supplenti di inviare le bollette da pagare a Renzi e al ministro Giannini».
www.tuttoscuola.it – 7 novembre 2014
“Israel sulla maturità: sfatare il mito dell’oggettività”
░ L’autorevole parere di Giorgio Israel: Si aspira a un esame il cui esito sia il più omogeneo possibile, dalle Alpi al Lilibeo, improntato agli stessi criteri. Ma cosa vuol dire e come può essere realizzato? Il nostro consueto ringraziamento al prof. Israel per quanto spiega nella consueta maniera essenziale e incontrovertibile.
Rallegriamoci che il governo abbia desistito (speriamo definitivamente…) dall’intenzione di ridurre le commissioni dell’esame di maturità a soli membri interni. La motivazione della protesta – giova ricordarlo – era che in tal modo si rendeva tale esame un’inutile pantomima – tanto valeva attenersi all’esito dello scrutinio finale – e si disattendeva l’esigenza di rigore, di un giudizio esterno che desse maggiore “oggettività” al giudizio finale. … Abbiamo sentito parlare di “standardizzazione”, di correzione automatica alla maniera dei test Invalsi, che si auspica siano introdotti anche all’esame di maturità, persino di correzione automatica mediante i calcolatori e software avveniristici: il tutto per escludere l’arbitrarietà della soggettività umana, le idiosincrasie dei commissari…. Qui, piaccia o no, si tocca una questione epistemologica e cioè in che senso si possa intendere l’oggettività in un ambito che non è quello delle scienze fisiche o del mondo inanimato, ma è contrassegnato dalla presenza attiva di soggetti autonomi, nella fattispecie insegnanti e studenti. Qui ci si divide tra chi – non soltanto di area umanistica, ma anche e talora soprattutto di area scientifica – ha ben chiari i limiti del trasporto meccanico in quell’ambito dell’idea di oggettività tipica delle scienze fisico-matematiche, e di chi ha scarsa attenzione per il contesto disciplinare e per le modalità del processo di insegnamento e apprendimento e si nutre esclusivamente di pane e statistica. E qui non vale dire «in America si fa così». Certo, come ha scritto lo storico della scienza statunitense Theodore Porter nel suo Trust in Numbers, la tradizione dell’uso del calcolo nel management è nata in Europa, in particolare in Francia, ma «l’uso sistematico dei test QI per classificare gli studenti, i sondaggi di opinione per quantificare gli umori del pubblico, metodologie statistiche sofisticare per valutare il rapporto costo-benefici e le analisi di rischio nelle opere pubbliche – tutto in nome di una oggettività impersonale – sono prodotti distintivi della scienza Americana e della cultura Americana». Tuttavia, due osservazioni vanno fatte: a) non siamo in una colonia e non tutto quello che si pensa e si dice negli USA va preso come verità rivelata (strano modo di essere oggettivi); b) se c’è chi negli USA continua imperterrito in quell’andazzo, proprio là sta montando una reazione vivacissima, preoccupata dai disastri che ha prodotto in numerosi campi la mitologia dell’oggettività impersonale, mentre da noi sembra imporsi il più piatto conformismo. Proviamo allora a mettere alcuni punti fermi. È indiscutibile che l’attribuzione di un peso non esclusivo ma molto rilevante alle prove scritte sia un modo per affermare l’imparzialità del giudizio… Ciò posto, la valutazione di quanto è stato scritto non è assolutamente riducibile a un giudizio standardizzato impersonale. Se un tema riguarda l’opera di Leopardi, è ridicolo pensare che si possa definire un giudizio standardizzato di tale opera che costituisca un crivello cui deve ciecamente attenersi chi giudica e chi scrive il compito. Il commissario ha inevitabilmente delle idee personali al riguardo, e così lo studente, cui dobbiamo lasciare la facoltà di esporre liberamente quanto ha “maturato” e che può risultare originale e interessante di per sé e anche per la commissione. Altrimenti, con che coraggio deprecare la scuola nozionistica? Il discorso vale per tutte le materie. Vale per una traduzione dal greco o dal (al) latino: non esiste la traduzione standardizzata ottimale e lo studente può esibire capacità differenziate e anche imprevedibili al riguardo. Sono queste le capacità da valutare… e cui non può rispondere un correttore automatico. E – si badi bene – questo vale anche per un problema di matematica, in cui la determinazione della soluzione esatta – un numero, un’espressione finale – è , in fin dei conti, l’aspetto meno importante del compito: gli aspetti più rilevanti sono come si è giunti alla soluzione (talora la fantasia nel trovare una via originale), il modo con cui si sono descritti i vari passaggi, il rigore e la precisione esplicativa. Tutto questo non può darlo alcuna correzione standardizzata, a meno di non decidere di sottoporre lo studente a prove standardizzate di modesto livello culturale, che non consentono altro che una risposta univoca: questionari, quiz, e analoghi. A tale degrado dovremmo arrivare in nome di una mitologia dell’oggettività impersonale estranea alla sfera dell’umanità? Proviamo a rovesciare il discorso e a considerare l’esame di maturità – senza prove Invalsi, questionari, quiz e altre miserie – come uno strumento di valutazione del sistema dell’istruzione. In diverse università straniere si procede alla valutazione al seguente modo: l’intero dossier dell’esito di un esame (scritto) viene inviato ad altri docenti di un’altra università, i quali lo esaminano e inviano il loro giudizio che diventa materia di un confronto e di valutazione dell’operato dell’università (e della commissione o del docente) di partenza. Perché non fare qui la stessa cosa? Sottoporre il dossier dei giudizi di una commissione di maturità a un’altra commissione o a commissioni costituite allo scopo? Si aprirà così un processo di confronto che avrà come esito trasparenza e miglioramento della qualità del sistema. La valutazione non può essere altro che intesa come un processo di crescita culturale che mira a far sì che le attività di attività di giudizio – emesse da soggetti, e inevitabilmente soggettive – siano quanto più possibile imparziali ed equanimi: questi sono gli aggettivi da usare al posto di una “oggettività” mutuata in modo meccanico dalla prassi delle scienze fisico-matematiche. È un processo lungo e complesso, ma è l’unico che non svilisce la ricchezza intellettuale – diciamo pure la ricchezza delle conoscenze e delle competenze – del professore e dell’allievo, riducendoli a macchine per somministrare test di verifica e a macchine per ingurgitare nozioni atte a superarli. Quindi: commissioni miste, compiti scritti quanto più sia possibile (senza per questo escludere una fase di colloquio verbale), valutazione incrociata (di tipo ispettivo) dei giudizi emessi, quantomeno per una quota percentuale significativa delle prove di esame.
www.corrieredellasera.it – 8 novembre 2014
“Quasi pronta la Maturità 2015. Novità per la seconda prova scritta”
░ Il quotidiano anticipa qualche indiscrezione sulla II prova scritta.
Di certo ci sono le date: 17, 18, 22 giugno 2015. Che poi sono quelle della prima, della seconda e della terza prova scritta. Per il resto, la maturità 2015 è ancora un po’ fumosa. Dovevano esserci tutti i commissari interni, per risparmiare, e invece, come ha detto il premier Matteo Renzi qualche giorno fa, sarà come prima, commissari esterni e interni. Però qualcosa si muove. Tra poco il ministro Stefania Giannini firmerà il provvedimento con le regole dell’esame di stato del prossimo anno, quello che conterrà le novità firmate Maria Stella Gelmini che proprio nel 2015 entreranno in vigore. Le novità riguardano soprattutto la seconda prova scritta quella che definisce ogni indirizzo di studio: sono state individuate le materie caratterizzanti che per alcuni corsi come il liceo musicale o il liceo socioeconomico ancora non ci sono. Un’attenzione particolare poi è destinata alla prova dello scientifico dove la materia caratterizzante potrebbe essere anche scienze, oltra a matematica e fisica. La prova potrebbe avere più quesiti su ciò che è stato fatto negli ultimi tre anni nelle tre materie e potrebbe essere svolta su computer o in laboratorio. Per quanto riguarda poi la parte orale dell’esame, si discute ancora sull’opportunità di far presentare la classica tesina o aggiungere una discussione su un’attività svolta durante l’anno.