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Il potere in ambito formativo

Fonte: “Le nuove frontiere della scuola”
Periodico quadrimestrale di cultura, pedagogia e didattica n.29/giugno/2012
http://www.lenuovefrontieredellascuola.it/


Il potere in ambito formativo
Leggiamo sempre con attenzione gli scritti di Maurizio Muraglia, uomo di scuola e di cultura, attivo nell’associazionismo professionale (CIDI) e nel sociale. In questo saggio tratta il sempre dibattuto tema dell’autorità nel rapporto pedagogico; ne riportiamo alcuni passi della parte conclusiva, precisando comunque l’ordine dei sottotitoli: Autorità e potere; Potere ed educazione; Evoluzione dei modelli educativi; Il tempo andato; Da Edipo a Narciso. Dopo le parti che citiamo di seguito, il saggio si chiude con: La scuola microcosmo “politico”.
Il ruolo della scuola
Per un po’ abbiamo tenuto sullo sfondo il ruolo della scuola, nel ragionare su questa lunga transizione verso paradigmi ancora non ben delineati. Lo abbiamo fatto perché per comprendere la dinamica formativa postulata dal contesto scolastico occorreva non perdere di vista l’evoluzione sociale degli ultimi quarant’anni. La scuola non è un luogo immune da condizionamenti. Quel che avviene nelle famiglie e nei contesti sociali oltrepassa le pareti delle aule scolastiche ed influenza le
dinamiche relazionali che intercorrono tra chi insegna e chi impara. Tuttavia a scuola c’è uno specifico che rende più ardua, da un certo punto di vista, l’impresa dell’autorità e rischia sempre di
de-potenziare il lavoro degli insegnanti. A scuola si tratta di apprendere, verbo che mal tollera, come altri (amare ad esempio), l’imperativo. Si dirà: ma per secoli la scuola ha avuto il potere di far
imparare. Com’è possibile che oggi le cose siano cambiate? Perché l’autorità degli insegnanti non è più capace di trasmettere le conoscenze necessarie alla crescita? Se avere autorità è far crescere, e a
scuola “far crescere” avviene attraverso la trasmissione culturale, perché tale trasmissione è diventata sempre più difficile? Sono domande vere e serie, che rispecchiano l’esperienza di una demotivazione sempre più diffusa tra gli studenti, sintomo chiaro di un’impotenza del sistema a far realizzare quel che viene chiamato dai documenti ufficiali “successo formativo”. Su questo occorre fermarsi. I sistemi formativi hanno il “potere” di indicare le strade per una buona scuola. Oggi è ben noto che l’Unione europea dà incessantemente ai sistemi formativi degli Stati membri le indicazioni e le raccomandazioni necessarie per una formazione orientata alla cittadinanza attiva. Il potere di
indirizzo degli Stati è un potere che va ritenuto sacrosanto pena la dissipazione delle risorse intellettuali e l’impossibilità di una crescita adeguata. In Italia l’istituzione dell’autonomia (2000)
ha abrogato il potere del centro di emanare programmi, attribuendo alle istituzioni scolastiche e agli enti locali, con la riforma in senso federalista del titolo V (2001), maggiori poteri in materia di curricoli. Possiamo parlare a questo proposito di un processo di decentramento del potere, ma questo decentramento ha il carattere vero e proprio del servizio, come attesta l’uso di una parola solitamente sgradita agli operatori della scuola, ovvero “utenza”. Gli utenti sono coloro al servizio dei quali operano tutta una serie di soggetti il cui “potere” è quello di soddisfare i bisogni culturali degli “utenti”. Tutto questo sembra contrastare con la risposta troppe volte apatica, disinteressata, scarsamente partecipativa di tanti nostri studenti, per non parlare dei fenomeni di dispersione e abbandono, caratterizzati da un vero e proprio rifiuto di questo servizio che lo Stato offre alla collettività. Cosa
succede allora? Come viene interpretato, nelle aule scolastiche, il potere di servizio predisposto dallo Stato, sia pur in regime di sussidiarietà pubblico-privato?
L’autorità mediata dalla didattica
A questa domanda si può tentare di rispondere considerando le aule scolastiche quali luoghi in cui la nozione di potere continua a mantenere una forma di ambiguità, frutto della convivenza tra antichi retaggi nostalgici e istanze innovative. Compiremo qui un excursus generale sui vari settori della vita scolastica che possono risultare campo di esercizio di una qualche forma di potere. Non perderemo di vista, ovviamente, il forte connubio che lega potere e autorità, nella convinzione che i destini dell’autorità nelle aule scolastiche dipendano dalla configurazione di tale intreccio. In un suo recente contributo (D. Novara, Ascolto, in “Voci della scuola” IX, Tecnodid 2010.), il pedagogista Daniele Novara ripercorre brevemente ma incisivamente la storia educativa della scuola italiana e la confusione prodotta da un’errataconcezione del tipo di “ascolto” che gli insegnanti avrebbero dovuto praticare nei confronti delle esigenze degli alunni, così come andava suggerendo la scienza pedagogica nel dopoguerra: “Il
ribaltamento dei modelli educativi tradizionali avvenuto nel Novecento conduce infatti progressivamente a intendere l’ascolto in una dimensione di carattere psicologico. Oggi gli educatori tendono a pensare di dover offrire agli alunni un ascolto che esula dalla dimensione didattica che a loro competerebbe (corsivo nostro) e si trasforma in una struttura relazionale dalla connotazione anche psicologica: l’elemento affettivo della relazione docente-alunno assume un ruolo importante e l’insegnante è visto come colui che ha il compito di creare le condizioni perché
il bambino o il ragazzo possa essere accolto e accettato”. Novara illustra la confusione pedagogica prodottasi in virtù di questo “esulare dalla dimensione didattica” dell’ascolto e attribuisce ad essa - per reazione - un certo rigurgito autoritario orientato al ritorno al paradigma del potere e del controllo, che sembra vagheggiato da vari settori della politica, dell’opinione pubblica e della stessa scuola. I suoi argomenti ci sembrano persuasivi perché ricordano che la relazione tra un insegnante ed un alunno o un gruppo di alunni non è una relazione
in-mediata, ma mediata. L’autorità dell’insegnante è mediata dall’esperienza didattica, ovvero dai saperi e dai metodi con i quali viene costruito l’ambiente di apprendimento. Ma non si tratta di un
ritorno ai paradigmi del passato, perché non siamo davanti ad un’assenza di autenticità nel rapporto tra chi insegna e chi impara, tutt’altro. L’autenticità, secondo la prospettiva che assumiamo, lungi dall’essere sottratta, non solo risulta arricchita, ma diventa vera sostanza dell’autorità, si potrebbe qui dire vero potere. La presenza in classe di saperi e di metodi è il termostato dell’autorità. Essa ha la capacità di qualificare o de-qualificare la relazione tra docenti e discenti, che diversamente sarebbe affidata - come, ahinoi, talora accade e come documenta tristemente la cronaca - al gioco delle pulsioni soggettive. Nel nostro tempo, in una classe dove si voglia esercitare una vera autorità, che prelude ad un vero potere di favorire l’apprendimento, la questione di fondo sta nella capacità di costruire il clima relazionale adatto. Esso si nutre di contenuti culturali fin dal primo momento in
cui un insegnante incontra i suoi alunni. Nel dire “buongiorno ragazzi”, è già cultura. Nel modo, nel tempo, nella prossemica, nel contesto di questa frase è già contenuta una rilevanza culturale. Cultura e relazione nell’aula scolastica si contaminano in profondità, e solo un insegnante che intende soltanto, in una logica burocratica ed esecutiva, “svolgere un programma” per mezzo di quella classe finisce per situarsi al di fuori della dialettica tra cultura e relazione, che vede gli alunni come fine e gli oggetti culturali come mezzo. Fuori da questa dialettica, si ritorna all’autorità come esercizio di potere coercitivo che, come insegna la psicologia dell’apprendimento, può risultare fattore di apprendimento, ammesso che lo sia, solo per alunni super seguiti e super motivati. Ma la
scolarizzazione di massa, l’eterogeneità degli stili cognitivi e la democratizzazione complessiva delle dinamiche sociali non consentono più un approccio top-down di tipo precettativo.
La relazione di coesistenza
È da ricondursi a tale tipo di impostazione l’idea di “asimmetria conviviale” che potrebbe qui essere utile introdurre. Asimmetrico resta il rapporto tra chi insegna e chi impara perché non è un rapporto tra pari. Conviviale può configurarsi tale rapporto quando è capace di colorarsi affettivamente sul terreno posto da oggetti culturali (saperi e metodi) capaci di intercettare lo spazio di significatività dei ragazzi, fatto di esperienza e di esistenza. Proprio il concetto di “co-esistenza”
rende eloquente questo itinerario concettuale. Chi insegna e chi impara possono praticare fruttuosamente la coesistenza per il raggiungimento di obiettivi comuni, a patto che tra chi insegna e chi impara riesca a crescere la fiducia reciproca. Scrive opportunamente Paolo Calidoni:
“Guardare con sufficienza o trattare con sarcasmo le ragazzine ‘tre parole’, prescindere dalla condizione di digital native e/o di plurilinguismo di molti ragazzi comporta rendersi difficile l’azione didattica, non riconoscere la parte di ciascuno, rinunciare a promuoverne l’uscir fuori. Partire da lì, metterlo alla prova, proporre l’andare oltre, invece è quello che i ragazzi ci chiedono, a volte anche mettendo la scuola alla berlina di YouTube. E se ci proviamo, di solito non ci deludono, ognuno a modo suo” (P. Calidoni, Confrontarsi con i ragazzi in rete, in “Rivista dell’istruzione” 6/2009, p.39).
La valutazione scolastica
C’è un altro aspetto da considerare quando si ragiona di potere e di autorità nelle aule scolastiche. Si tratta del delicatissimo tema della valutazione. Il potere di promuovere e bocciare è tradizionalmente considerato il potere-principe della scuola, il deterrente fondamentale di ogni comportamento trasgressivo. Nel 1998 (Ministero Berlinguer) lo Statuto degli studenti fece registrare una conquista importante per i ragazzi ovvero l’impossibilità di interferenza tra voto di profitto e voto di condotta. Come dire che nessun alunno, secondo quel dispositivo, avrebbe mai potuto essere bocciato per questioni di condotta a fronte di un profitto positivo. Dieci anni dopo (Ministero Gelmini), quella conquista, a fronte di tutta una serie di segnali preoccupati provenienti
dall’opinione pubblica e dai media, venne di fatto abrogata attraverso la reintroduzione, con il famoso “cinque” in condotta, della possibilità di bocciare un alunno anche a fronte di una positività del profitto, caso ovviamente più teorico che pratico perché normalmente il basso voto di condotta ha profondi nessi con l’insuccesso negli apprendimenti. Diciamo quindi che la scuola si è riappropriata di un potere che aveva perduto, e infatti non poche erano state le lamentele degli insegnanti, sempre alla ricerca di “strumenti” per poter impedire le monellerie. Sempre in ambito di valutazione non vi è che non riconosca il potere insito nell’attribuzione dei voti. Un voto basso può compromettere l’autostima di uno studente, soprattutto se egli lega la sua motivazione alla gratificazione e al riconoscimento, così come un voto alto può indurre
indebitamente una dilatazione dell’Io in certi alunni che della propria bravura fanno uno strumento di competizione e di “potere”, se vogliamo, sulla classe. Il numero, per la sua secchezza e per la sua
caratteristica di indicatore quantitativo, incoraggia facilmente dinamiche di potere, che si nutrono di graduatorie e di prevaricazioni prodotte da eccesso di autostima, magari camuffate nobilmente
come “meriti”. L’insegnante, per esercitare la necessaria autorevolezza, dovrebbe quanto più possibile de-potenziare la valenza del voto numerico tenendo sotto controllo la relazione educativa. È qui chiamato in causa il tema del rapporto tra misurazione e valutazione. La loro sovrapposizione può procurare guasti irreparabili nella relazione tra insegnanti e studenti, che in tal caso si configura come relazione in cui la giusta e necessaria autorità finisce per essere adulterata dal potere. Il voto numerico purtroppo mal si presta ad evitare tale sovrapposizione per la sua pretesa, soprattutto nella prassi della secondaria superiore, di essere anche elemento valutativo. Invece è necessario puntualizzare che la valutazione in primo luogo, in ambito scolastico, è valutazione degli apprendimenti nell’esperienza scolastica complessiva degli alunni, piuttosto che “valutazionedell’alunno”. Ciò implica che l’insegnante è chiamato ad esprimere un’opinione (ed un’opinione è un ragionamento, non un numero) sui comportamenti cognitivi degli alunni, che possono essere
rilevati - misurati - con varie modalità, non esclusa quella numerica. In altre parole, si dovrà sempre poter dire ad un alunno che il suo compito è risultato “insufficiente” evitando accuratamente di fargli balenare l’idea che lui sia “insufficiente”. Non solo, ma a fronte di progressi cospicui nelle misurazioni, non vi è dubbio che l’insegnante debba segnalare il progresso in positivo della sua valutazione del rendimento dell’alunno, quale che sia l’esito dell’ultima misurazione o quale che sia la “media” tra le misurazioni. Anche il rapporto scuola-famiglia può soggiacere a logiche di potere (inteso come dominio, ovviamente), nella misura in cui la competenza didattica degli insegnanti diviene autoreferenziale, ovvero incapace di aprirsi alla comprensione dell’interlocutore, soprattutto quando quest’ultimo non dispone delle stesse competenze del docente. In questo caso l’autorità dell’insegnante è chiamata alla capacità di descrivere e argomentare le proprie azioni ovvero, come si diceva a proposito del saggio di Hillman, di dare alla propria autorità il potere delle idee piuttosto che il potere delle
valutazioni numeriche.

 

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